di Francesco Paolo Capone Segretario Generale UGL

Alla disciplina del lavoro agile, occorrono interventi mirati, a partire dalla valorizzazione della contrattazione collettiva, l’alternanza fra sede e remoto, il diritto alla disconnessione, il potenziamento della cybersicurezza, quanto mai centrale come dimostra il caso del sito della regione Lazio

Quando, fra qualche tempo, si scriverà la storia dei primi anni venti del terzo millennio, un posto di rilievo lo avranno alcune parole: lockdown, video call, smart working, green pass. Un lungo calvario, che al nostro Paese è già costato 130mila morti, iniziato una mattina di inizio marzo, nella quale in milioni ci siamo ritrovati chiusi in casa per cercare di contenere un mostro capace di mietere vittime su vittime. In quelle ore, quasi per caso, si scoprì che, comunque, da casa era possibile lavorare, studiare, mantenere un minimo di contatto sociale e umano. Quasi per caso, perché non possiamo dimenticare che l’Agenda digitale italiana, approvata sempre all’inizio di marzo del 2020, non contiene riferimento alcuno allo sviluppo del lavoro agile, nonostante una legge dello Stato del 2017. Premesso che quello che abbiamo conosciuto, soprattutto nei primi mesi di pandemia, è qualcosa di concettualmente diverso dallo smart working propriamente inteso – qualcuno ha parlato di home working, altri più semplicemente di lavoro a distanza o da remoto -, finita l’emergenza crediamo sia importante regolamentare lo strumento al fine di raggiungere un doppio obiettivo: favorire la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro; incrementare la produttività, a beneficio di tutti gli attori che ruotano intorno all’impresa in un’ottica partecipazione. Per ottenere questo duplice obiettivo, non serve stravolgere la legge 81/2017; è sufficiente mettere in campo una manciata di interventi correttivi, il primo dei quali è il dare centralità alla contrattazione collettiva. Senza una cornice ben definita, il semplice accordo fra datore di lavoro e dipendente non giova a nessuno.