di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Il mondo sta assistendo impotente a quanto sta accadendo in Afghanistan: l’America impegnata in una smobilitazione frettolosa e sgangherata, i Talebani più forti che mai, capaci di riconquistare il Paese in poche settimane e cancellare in un battito di ciglia vent’anni di guerra e occupazione occidentale, la popolazione allo stremo, terrorizzata da un futuro di oppressione dopo l’illusione della democrazia e della modernizzazione. La gestione fallimentare della questione afghana corrisponde a precise responsabilità, ovvero quelle del presidente americano Joe Biden e della sua amministrazione democratica. Il ritiro era già deciso, non certo le modalità inadeguate e controproducenti con le quali è stato messo in atto, lasciando, peraltro, le armi dell’esercito afghano, che si è sostanzialmente liquefatto nel giro di poche settimane, a disposizione dei Talebani e offrendo un senso di rivalsa nell’estremismo islamico internazionale dagli effetti estremamente pericolosi per il mondo intero. Centinaia gli statunitensi e i locali da evacuare che ancora si trovano, a proprio rischio e pericolo, sul territorio afghano, con l’idea di inviare l’aviazione civile per poter realizzare quel ponte aereo per il quale le disponibilità di aerei militari non sono sufficienti. La buona parte di coloro, fra gli afghani, che avevano creduto nell’idea dell’esportazione della democrazia americana abbandonati al proprio destino, come dimostrato dall’immagine più significativa fra quelle che in questi giorni ci sono arrivate da Kabul: le persone aggrappate alle ali dell’aereo Usa, che decollava incurante delle centinaia di persone che si affollavano sulla pista e di quelle che cadevano nel vuoto. La presenza militare occidentale, certo, non poteva durare per sempre: migliaia di vittime fra i soldati e somme ingenti spese nel cercare di realizzare qualcosa che non si è verificato: trasformare la società afghana ed “occidentalizzarla”, con l’obiettivo di una maggiore sicurezza internazionale, progetto portato avanti assieme a quello di tutelare altri interessi, economici e geopolitici. Con la caduta di Kabul, purtroppo bisogna dirlo, si chiude il cerchio di un interventismo che non ha portato a soluzioni positive in nessuno dei Paesi oggetto delle attenzioni americane e occidentali, dall’Iraq alla Libia, dalla Siria all’Afghanistan, fino alle “primavere arabe”. Una sconfitta su tutta la linea che non ha ottenuto altri risultati che non rendere il mondo un luogo ancora più pericoloso, dare maggior potere e credibilità agli estremisti islamici, alimentare povertà e migrazioni. Una strategia fallimentare bipartisan, negli Usa, portata avanti tanto dai repubblicani quanto dai democratici e che forse si stava interrompendo, in Afghanistan, grazie agli sforzi dell’outsider Trump. Ma gli accordi per un ritiro americano ordinato e una transizione controllata sono stati vanificati da un’evacuazione rocambolesca, da una vera e propria capitolazione. Forse sarebbe il caso di trarre una lezione dall’ennesima sconfitta dei piani occidentali per il Medio Oriente in vista del G7.