In dieci anni, il ricorso al lavoro a tempo determinato è cresciuto del 36,3%

È lo stesso presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, a parlare di precarietà, formulando, così, un giudizio più politico che tecnico, il quale, sicuramente, avrà suscitato forti perplessità soprattutto dalle parti di viale dell’Astronomia, sede romana di Confindustria. Comunque sia, il Rapporto dell’Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche, l’ex Isfol, evidenzia una forte crescita nell’ultimo decennio dell’utilizzo dei contratti a tempo determinato. Pure considerando il calo dell’ultimo anno connesso alla crisi da Covid-19, nel complesso nel decennio i contratti a tempo determinano sono 800mila in più con una crescita del 36,3% ed una variazione sull’occupazione di «appena l’1,4%», utilizzando sempre le parole del presidente Fadda. Il massiccio ricorso ai contratti a tempo determinato è stato prima favorito con le riforme Fornero del 2012 e Renzi, il Jobs act del 2015, e poi circoscritto con il decreto Dignità, il primo atto del governo Conte-1 e dell’allora ministro del lavoro, Luigi Di Maio. Quest’ultimo atto ha previsto, fra le altre cose, la reintroduzione delle causali, aspetto successivamente mitigato con i vari decreti-legge emanati in epoca Covid-19, rispetto ai quali, a fronte di una Cgil che ha assunto una posizione di contrarietà, Cisl, Uil e, soprattutto, Ugl hanno mostrato un diverso pragmatismo, necessario peraltro per limitare il crollo dell’occupazione dipendente.