La questione si intreccia con la vicenda della previdenza complementare

Con la legge finanziaria per il 2006, il governo di allora stabilì che il trattamento di fine rapporto non destinato dai lavoratori al fondo negoziale di categoria (cosa che doveva essere fatta espressamente), il cosiddetto “non optato”, avrebbe dovuto essere versato dai datori di lavoro all’Inps che lo avrebbe gestito in attesa di corrispondere il dovuto al lavoratore quando era obbligatorio. Quella norma doveva essere applicata dalle aziende con più di 50 dipendenti. Si tratta di somme ingenti (perché com’è noto solo meno di un quarto dei lavoratori ha fatto quella scelta) che l’Inps sta accumulando da quindici anni: infatti, sia le anticipazioni che le restituzioni del Tfr ai lavoratori licenziati, dimessi o pensionati sono senz’altro inferiori ai continui afflussi, anche perché la stragrande maggioranza di quei dipendenti sono sostituiti dalle nuove assunzioni. Tale questione è stata evidenziata più volte, ricordando che nel passato, per decenni, gli accantonamenti obbligatori per il Tfr venivano utilizzati dalle aziende come “circolante interno” e quindi autofinanziamento per i loro investimenti. In effetti, anche l’Inps – secondo la norma del 2006 – avrebbe dovuto usare questi fondi per il finanziamento di attività produttive ma in realtà ciò non è avvenuto. È stato quindi chiesto se in questo momento di crisi economica non sarebbe opportuno non tanto restituire quei fondi ma almeno sospenderne per un biennio l’obbligo del versamento, in modo da non sottrarre liquidità alle imprese in un momento di bisogno.