di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale UGL
Al di là di come la si pensi su questa modalità lavorativa, lo smartworking durante questa terribile pandemia ha avuto un ruolo indispensabile, consentendo a moltissime persone di produrre per aziende e uffici e mantenere il proprio reddito, nonostante la situazione. Circa 6milioni e mezzo di dipendenti – fra settore pubblico, 1milione e 850mila, e settore privato, 4 milioni e 740mila – nel periodo peggiore del primo lockdown sono “rimasti a casa”, continuando però a lavorare. Senza gravare in termini di diffusione del contagio da Covid-19 sul resto della cittadinanza e quindi sul sistema sanitario, senza aver bisogno di Cig o ristori, lasciando agli altri, occupati in settori nei quali la presenza fisica sul posto di lavoro è elemento indispensabile, più spazio e distanziamento sui mezzi pubblici, più disponibilità di tamponi e Dpi, specie nella prima fase della pandemia, quando questi strumenti erano introvabili, e così via. Poi il numero di lavoratori in smartworking si è attestato sulla soglia dei 5 milioni di persone. Inopportuna qualsiasi forma di demonizzazione del lavoro da remoto, qualsiasi forma di contrasto fra garantiti e non: è stata una scelta necessaria e la mancanza di sostegni adeguati e tempestivi alle altre categorie è chiaramente imputabile a chi aveva il compito di gestire la distribuzione degli aiuti, non certo ad altri lavoratori. Detto ciò, oggi ci si interroga sul futuro del lavoro agile, che pure presenta da un lato dei vantaggi per aziende e lavoratori, dall’altro degli elementi di criticità. Ne ha parlato il Fatto Quotidiano in un interessante dossier, attuale data la possibilità di richiamare in ufficio i dipendenti pubblici a partire dal prossimo maggio, con la cancellazione della disposizione che prevedeva, per arginare i contagi, che la metà del personale operasse da remoto. Prorogata, invece, sia nel pubblico che nel privato, la procedura semplificata per l’accesso al lavoro agile. Per trovare una quadra sull’argomento è fondamentale fare una distinzione basilare: un conto è ricorrere allo smartworking durante la crisi sanitaria, un altro è pensare all’uso di questo strumento in condizioni di normalità, quando il Covid sarà, speriamo presto, solo un brutto ricordo. Nel primo caso, come misura emergenziale, è necessario usarlo in ogni occasione nella quale sia possibile, per tutelare il complesso del Paese dal diffondersi del virus. Nel secondo, che speriamo diverrà realtà a breve, questo strumento andrà disciplinato in modo diverso. Considerando, per il pubblico impiego, la necessità di tenere aperti larga parte degli sportelli al cittadino al fine di offrire servizi migliori o anche l’impatto negativo del lavoro da remoto sul commercio. Nel caso del lavoro privato, bilanciando vantaggi e svantaggi per le aziende in termini economici e di produttività. In entrambi i settori, garantendo ai dipendenti tutele e diritti, tanto sul luogo di lavoro quanto da remoto, e usando questa nuova modalità lavorativa, ove possibile, per permettere a chi ne abbia bisogno una migliore conciliazione fra vita professionale e privata. Per una volta senza ideologizzazioni e preconcetti, ma solo per ottenere, per tutti, le migliori condizioni di vita e di lavoro.