Venti milioni di italiani praticano una attività sportiva, generando così occupazione qualificata, ma spesso precaria

La pandemia da Covid-19, quasi improvvisamente, ha fatto scoprire ad una larga parte degli italiani, compreso l’allora governo presieduto da Giuseppe Conte, il mondo che ruota intorno allo sport. Qualcuno, anche a Palazzo Chigi, ha così scoperto che lo sport non è soltanto sinonimo di calcio professionistico – sono di questi giorni, peraltro, le polemiche infuocate che hanno ricacciato in un angolo la proposta di una Superlega dei club più ricchi di Inghilterra, Spagna e Italia – né di tempo libero da occupare. Intorno alla pratica sportiva ruota una economia in forte crescita, con almeno 400mila occupati diretti, una parte dei quali a tempo pieno. La pandemia, come noto, ha chiuso palestre e piscine, cancellato campionati amatoriali e corse su strada in bici o a piedi, colpendo in maniera indistinta bambini e anziani, figli e genitori e, soprattutto, cancellando l’unica fonte di reddito per molti. I lavoratori dello sport, spesso tecnici preparati – a certi livelli occorre un titolo di studio equivalente ad un corso universitario, non dimentichiamolo – si sono così trovati con il reddito azzerato. I ristori sono sempre stati insufficienti e hanno permesso di coprire una platea non più ampia di un terzo di coloro che ne avrebbero avuto diritto. Il presente numero di Meta sabato analizza i cinque decreti attuativi della legge del 2019, arrivati dopo diciotto mesi di attesa e che, in diversi casi, entreranno in vigore non prima del 2022. Al netto di ciò, è sicuramente interessante tutta la parte relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro dei lavoratori dello sport, come pure l’altra che prevede la possibilità per associazioni o società sportive di acquisire per tempi molto lunghi impianti sportivi.