di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale UGL

Nella serata di ieri è arrivato il primo Dpcm dell’era Draghi. Il provvedimento, in vigore dal 6 marzo fino al 6 aprile, mantiene in piedi l’ossatura della precedente normativa anti contagio – il sistema a colori, il divieto di spostamento fra Regioni fino al 27 marzo, il coprifuoco, le restrizioni alle attività produttive in base all’andamento dell’epidemia – alcune disposizioni sono però rimodulate, con l’introduzione di diverse novità. Ci sono ulteriori restrizioni in caso di aumento di contagi, in particolare sulle scuole che saranno obbligate tutte alla Dad con contagi superiori a 250 ogni 100mila abitanti, e su alcuni settori che dovranno chiudere in caso di passaggio al rosso della Regione di appartenenza: parrucchieri, barbieri e centri estetici. Ma ci sono anche degli allentamenti, se consentiti dall’andamento della pandemia: torna la possibilità dell’asporto dai bar anche dopo le ore 18 ed è prevista la riapertura, con ingressi contingentati, di teatri, cinema e musei anche nel week end, a partire dal 27 marzo e solo nelle zone gialle. Questi, a grandi linee, i contenuti del Dpcm, contenuti che sono stati interpretati da molti giornalisti e commentatori in modo non del tutto obiettivo, riproponendo il solito derby tra “aperturisti” e “chiusuristi” nel tentativo di stabilire quale fra queste due squadre, più o meno coincidenti con i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, abbia vinto o se, invece, abbiano pareggiato. In realtà si tratta di un problema del tutto mal posto. Al di là delle tifoserie politiche, ciò che molti nostri concittadini rimproveravano al governo precedente era la mancanza di una strategia chiara in grado di tutelare in modo adeguato sia salute che l’economia, trovando una quadra fra le due essenziali esigenze di bloccare da un lato i contagi e mantenere dall’altro la stabilità sociale. Ben pochi fra i nostri concittadini, crediamo, vorrebbero che tutto restasse aperto sfidando il virus o che, al contrario, si continuasse a chiudere ad oltranza col rischio di veder sprofondare il Paese nella miseria. Non esiste un derby fra “aperturisti” e “chiusuristi”, ma semplicemente la richiesta, più che legittima, di misure sensate, basate su criteri scientifici e non politici, fondate su dati certi e possibilmente trasparenti, stabilite con un ragionevole anticipo che consenta alle persone di organizzarsi, limitate ai territori più investiti dal Covid e in grado di bilanciare in modo adeguato eventuali chiusure con tempestivi interventi di sostegno economico. Tutto qui. Specie negli ultimi mesi del Conte due, molti di questi criteri di buon senso e ragionevolezza erano venuti a mancare. Avevamo assistito a provvedimenti presi il sabato ed in vigore dal giorno successivo, a ristori parziali, capaci di escludere intere categorie, ed anche tardivi. Alla mancanza di corrispondenze chiare fra la scelta di chiudere o invece lasciare aperti determinati territori e settori – scuole comprese – ed i dati sulla effettiva circolazione dei contagi nelle zone e nelle attività interessate. Ora la speranza è che si sia cambiato registro, aprendo o anche chiudendo se necessario, ma in modo meno arbitrario e con una maggiore attenzione all’impatto effettivo, sia dal punto di vista sanitario e che economico delle decisioni prese.