di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

La vicenda europea che sta contrapponendo il cosiddetto blocco di Visegrad alle istituzioni Ue ci riguarda tutti. Non, però, come spesso si sente dire, a causa del fatto che il veto posto da Polonia e Ungheria, con l’aggiunta della Slovenia, all’approvazione del bilancio europeo danneggerebbe l’Italia nell’accesso al Recovery Fund. È vero, stiamo aspettando le risorse che dovrebbero arrivare il prossimo anno e potrebbero contribuire a risanare, almeno in parte, i sistemi economico-sociali dei Paesi europei, danneggiati gravemente dalla crisi Covid. Ma la battaglia condotta dagli Stati che si stanno opponendo alle ingerenze di Bruxelles si basa su ragioni fondate, che al momento interessano loro, ma in futuro potrebbero coinvolgere anche altri. La decisione europea di subordinare l’accesso al Recovery Fund al rispetto dello “stato di diritto” appare infatti come una mossa, molto scaltra, volta ad aiutare o meno la ripresa a seconda delle simpatie e delle antipatie ideologiche, condizionando così anche i consensi popolari dei governi non graditi, difficili da mantenere in stato di crisi costante. La Ue contesta, in particolare alla Polonia ed all’Ungheria, un depotenziamento dell’indipendenza della magistratura dalla politica. Ovvero l’aver deragliato da uno dei binari fondamentali della democrazia: la separazione dei poteri. In poche parole gli organi di autogoverno della magistratura polacca e ungherese sarebbero nominati con un sistema che non ne garantirebbe l’imparzialità, ma li subordinerebbe al volere della maggioranza al governo, per inciso di destra. Ora, detta così, la cosa sembrerebbe lineare: come non dar ragione ad Ursula Von der Leyen? Inaccettabile una magistratura connessa alla politica e capace, magari, di colpire gli avversari per ragioni di appartenenza. Passando dalla teoria alla pratica, noi, nel nostro martoriato Paese, potremmo citare molti esempi alquanto plateali di commistione fra potere politico e giudiziario. Pensiamo, per citare un caso tanto grave quanto recente, all’enorme scandalo Palamara, quando il giudice, ex presidente dell’Anm ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, venne intercettato mentre, parlando con l’allora vicepresidente del Csm Legnini (eletto mentre era sottosegretario nel governo a guida Pd e già questo la direbbe lunga) impostava una strategia per l’attacco giudiziario nei confronti dell’allora ministro dell’Interno Salvini, cercando un reato da imputargli relativamente al caso Diciotti e solo per motivazioni politiche. Con un esempio come questo, ben si comprende come sia difficile dar credito all’obiettività delle accuse mosse dall’Ue ai Paesi non allineati alla maggioranza che oggi è al governo a Bruxelles, altrimenti anche l’Italia avrebbe dovuto essere oggetto delle attenzioni europee quanto a rispetto dello “stato di diritto”. Altra causa di dissapori, il rifiuto dei Paesi attenzionati dall’Ue a veder ricollocati sul proprio territorio i migranti. Una ridistribuzione che forse potrebbe essere utile a breve termine per l’Italia, ma che comunque non risolverebbe il problema ed anzi incentiverebbe altre partenze, mentre sarebbe preferibile (anche per noi) risolvere a monte una questione ormai ingestibile, nei Paesi di provenienza. Per concludere, quindi, questo sembra un altro caso di forti condizionalità – stavolta non economiche, ma politiche, perciò forse ancora peggiori – per accedere a dei fondi, proprio come nel caso Mes. Come non comprendere le ragioni di chi vuole difendere la propria libertà e la propria sovranità? Beni forse ancor più preziosi, anche dal punto di vista economico e specie nel lungo termine, persino dei tanto sospirati fondi europei.