di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Riecheggiano in tutto il mondo le terribili immagini provenienti da Beirut. Ieri una doppia esplosione in un deposito, nel quale erano conservate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, ha causato effetti spaventosi, provocando un centinaio di vittime, altrettanti dispersi e migliaia di feriti – numeri, purtroppo, ancora provvisori – distruggendo buona parte della capitale del Libano e lasciando una scia di fumi tossici tale che le autorità locali hanno invitato i residenti a non uscire di casa o addirittura ad abbandonare la città. Molti hanno paragonato l’enorme fungo di fumo alto chilometri nel cielo di Beirut a quello lasciato dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Una comparazione che rende l’idea della portata dell’esplosione. Una devastazione mai vista in una città e in un Paese che pure ne hanno passate tante, basti pensare al numero di presidenti o premier assassinati, moltissimi, da Bashir Gemayel a Rafīq al Hariri, per ricordare solo i più noti di una lunga lista. Il Libano è una terra martoriata da decenni per motivi geopolitici, a causa degli interessi contrastanti dei Paesi confinanti, dalla Siria a Israele, e delle grandi potenze mondiali, teatro di una sanguinosa guerra civile scoppiata nel 1975 e terminata solo nel ’90 ed ancora oggi in gravissima difficoltà. Per motivi politici annosi e irrisolti, con la difficile convivenza fra le varie etnie, la presenza di un numero massiccio di profughi palestinesi, il ruolo di Hezbollah, per motivi economici, con una crisi finanziaria senza precedenti, e per motivi sanitari, a causa della pandemia da Covid-19, con il virus ancora diffuso nel Paese. Delle cause dell’esplosione di ieri ancora si sa poco e forse si è trattato solo di un errore, frutto di negligenza e imperizia, anche se non si escludono ipotesi peggiori. Fatto sta che il Paese, che un tempo era conosciuto per essere la “Svizzera del Medioriente” ora è di nuovo piombato in un clima di terrore e di rovina. Inevitabilmente tornano alla mente i ricordi del passato, quando nel lontano 1982 partecipavo alla missione italiana di peacekeeping in Libano come sottufficiale paracadutista del Battaglione San Marco. Le immagini del porto, che conoscevo e frequentavo, ora devastato. Al tempo era affidato alle forze francesi, mentre a noi italiani era assegnata l’area intermedia – quella dei campi profughi, di Sabra e Shatila – fra porto e aeroporto, quest’ultimo, invece, di competenza statunitense. La fierezza di aver contribuito, con sudore, sangue e cuore, seppure per un periodo limitato, alla stabilizzazione di un Paese bellissimo e tormentato, che non riesce a trovare un equilibrio duraturo. Un ricordo indelebile, che, di fronte alla vista di nuove e tanto gravi sofferenze, non può che far esprimere vicinanza ai nostri soldati ancora presenti sul posto e solidarietà a tutto il popolo libanese, così duramente colpito.