di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale UGL

Cinquant’anni fa scoppiava nel nostro Paese quella che sarebbe stata conosciuta come la rivolta di Reggio Calabria. Fu forse la più importante manifestazione di protesta mai avvenuta nella storia della Repubblica, una vera e propria insurrezione, una guerriglia urbana che durò mesi, partita il 14 luglio del ‘70, giorno rivoluzionario per antonomasia, e conclusa solo nel febbraio seguente. La rivolta era scaturita dalla decisione di assegnare a Catanzaro e non a Reggio il ruolo di capoluogo dell’appena costituita regione Calabria, anche se questa specifica faccenda fu tutto sommato solo la scintilla necessaria a infiammare una miccia che nasceva nella profonda insoddisfazione di un popolo, quello reggino, ma anche calabrese e più in generale meridionale, che non si sentiva tutelato e rappresentato dalle istituzioni. Stanco della povertà, della disoccupazione, di un contesto economico e sociale che costringeva molti ad emigrare. A quella rivolta noi dell’Ugl siamo necessariamente affezionati, perché, anche se con forza, ebbe lo scopo di far sentire la voce del popolo, le sue richieste e i suoi bisogni e fu trasversale, partecipata da cittadini di ogni orientamento, ma guidata dalla destra e in particolare da Ciccio Franco, nostro sindacalista dell’allora Cisnal e militante missino, che per l’occasione diede nuova luce al motto dannunziano “boia chi molla”. Fu una rivolta dura: ci furono vittime, feriti e migliaia di arresti. Ma ci fu anche la solidarietà espressa dai lavoratori del Nord pronti a scendere a Reggio. Alla fine, dopo le repressioni, persino con l’intervento dei carri armati, mai visti prima in tempi di pace, i moti furono sedati. Il governo concesse a Reggio che lì si riunisse il Consiglio Regionale, in una sorta di divisione dei compiti con Catanzaro, e alcuni progetti di sviluppo economico e industriale che rimasero, però, irrealizzati. Fu una rivolta, una delle poche nel nostro Paese, autenticamente popolare, oggi si direbbe forse “populista”. Non assecondata dai media, e anche per questo poco conosciuta ai giorni nostri, temuta dalle istituzioni più di quelle degli studenti borghesi di sinistra o dei lavoratori vicini al Pci forse per l’intensità e la partecipazione popolare, forse perché proveniente non dalle grandi città, dalle università, dalle industrie, ma dalla “periferia dell’impero”, solitamente quasi invisibile e invece, se capace di alzare la testa, potenzialmente ancor più minacciosa. Si dice spesso che quella fu l’ultima rivolta del Sud, ma non bisogna mai pensare che la storia possa dirsi finita. Proprio in questi giorni vediamo il Mezzogiorno e la Calabria pronti di nuovo a ribellarsi di fronte all’ennesima ingiustizia di vedersi costretti ad essere terra d’approdo senza tregua, nonostante una situazione economica e sociale già difficilissima e ancora più dopo la crisi causata dal Covid.