di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Sono passati cinquant’anni da quando si tennero per la prima volta le elezioni regionali in Italia. Era il 7 giugno del 1970 la data nella quale i cittadini furono chiamati per la prima volta a scegliere i propri rappresentanti regionali, realizzando, dopo molte vicissitudini, il dettato costituzionale che già dal ’48 prevedeva la presenza delle Regioni fra le Istituzioni del Paese. La lunga pausa fra il disegno dell’architettura regionale e la sua attuazione pratica fu determinata, come spesso accade, da ragioni politiche. Politica intesa sia in senso ideologico, che strategico. Dal punto di vista ideologico si contrapponevano una visione favorevole ad una maggiore autonomia rispetto al governo ed una, invece, che giudicava più utile, a garanzia dell’unità nazionale e di un pari trattamento fra tutti i cittadini della Penisola il mantenimento, come uniche istituzioni locali, dei Comuni e delle Province. Fra i sostenitori di quest’ultima posizione c’era anche l’allora Msi. Il Pci, invece, impossibilitato ad andare al governo perché la maggioranza degli italiani era, allora come oggi, di orientamento conservatore e per questioni di equilibri internazionali, vedeva nelle Regioni l’unica possibilità di avere maggiore potere, almeno nelle zone “rosse” del Paese: Emilia-Romagna, Toscana, Umbria. Comunque alla fine le elezioni regionali si tennero e nacquero i nuovi poteri locali. Poi, molto dopo, solo dalla fine degli anni ’90, vennero il decentramento, la legge Bassanini e la riforma del Titolo V. La storia delle Regioni italiane è stata ricca di luci ed ombre ed effettivamente lo squilibrio fra zone più avanzate ed altre meno, in termini di servizi e welfare, si è realizzato, come temeva l’antico partito della Fiamma. Ora, con la crisi Covid-19, il ruolo delle Regioni è stato messo in discussione, spesso proprio da coloro che in passato maggiormente spinsero per la loro realizzazione. Si sono verificati, in questi lunghi tre mesi alle prese con la pandemia, non pochi attriti fra governo nazionale e amministrazioni locali, dalle prime controversie sulla istituzione delle varie zone rosse, a quelle sulla ripresa delle attività economiche, agli ultimi dibattiti sulle riaperture dei “confini” regionali fra zone più o meno contagiate. Alcuni governatori sono stati oggetto di attacchi per la gestione dell’emergenza, altri, invece, no e non sempre in proporzione al numero dei malati e dei decessi avvenuti nei territori di competenza. Il tutto alla vigilia di una nuova importante tornata amministrativa: le prossime regionali, che interesseranno Liguria, Puglia, Veneto, Campania e Marche, dovrebbero tenersi, dopo vari rinvii e anche qui non poche polemiche, a breve. L’impressione è che una discussione sul ruolo delle Regioni, su cosa mantenere e cosa eventualmente cambiare, dibattito che sarebbe utile e giusto per garantire ai cittadini le migliori condizioni di vita possibili, sia anche ai nostri giorni falsato da ragioni di convenienza politica. Tolte forse un po’ troppo frettolosamente di mezzo non tanto le Province quanto le elezioni dei loro rappresentanti, ora occorre vigilare affinché sull’onda della crisi Covid non si commettano errori. Non è un caso che quelli che spingono per una riduzione del ruolo delle regioni siano gli avversari del Centrodestra, che detiene la maggioranza nella gran parte delle istituzioni regionali e forse ancora di più dopo le prossime elezioni. Si possono e si devono correggere gli squilibri, rimodulare quanto non si è rivelato utile alla cittadinanza, ma senza dimenticare che in quest’Italia ormai da un decennio guidata da governi frutto delle alchimie di palazzo e spesso nei fatti di minoranza fra gli elettori, le Regioni continuano nonostante tutto a rappresentare un contrappeso politico da mantenere nell’interesse della democrazia.