di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Distogliendo per un momento lo sguardo, almeno in parte, dalla crisi sanitaria ed economica generata dal Covid, è particolarmente interessante lo scontro che si sta consumando oltreoceano fra il presidente Usa, Donald Trump, e il social per eccellenza della borghesia progressista, ovvero Twitter. In qualche modo anche questa faccenda è collegata al coronavirus: la diatriba fra il presidente e il social è stata innescata, infatti, da alcune dichiarazioni di Trump sulla possibilità, caldeggiata da alcuni esponenti democratici, di far svolgere le presidenziali di novembre con il voto per posta a causa del Covid, proposta giudicata negativamente da Trump per il rischio di brogli. Un’affermazione, quest’ultima, che per Twitter andava sottoposta a fact checking, insomma da verificare, non attendibile. Altri cinguettii del Presidente non sono piaciuti alla piattaforma, ad esempio delle esternazioni sui tragici fatti di Minneapolis, dove Trump assicurava giustizia per George Floyd, ma condannava le proteste violente. Ora Trump minaccia ritorsioni, con un decreto che dovrebbe rendere più semplice citare in giudizio i social, non solo Twitter, ma anche Instagram e Facebook ad esempio, in caso di cancellazione di post o account. Al di là dei giudizi sulla singola vicenda e sui modi non sempre condivisibili del presidente americano, non si può negare il fatto che nella melassa del politicamente corretto, Trump abbia almeno il merito di sollevare delle questioni non irrilevanti e di sparigliare le carte che impediscono giudizi obiettivi sull’operato di vecchi e nuovi “poteri forti”. Si pensi – tornando al Covid – alle critiche, non certo pretestuose, del presidente americano sull’operato dell’Oms. Ecco, anche sulla questione Twitter, nelle osservazioni di Trump un fondo di verità c’è: i social sono diventati, infatti, arbitri del dibattito pubblico, hanno soppiantato gli altri mezzi di comunicazione e si sono fatti veicolo anche delle comunicazioni ufficiali delle massime istituzioni mondiali. I politici ne traggono giovamento in termini di pubblicità, Trump compreso, questo è indubbio. Ma è anche vero che rispetto ai media “tradizionali”, pubblici e privati, non sono disciplinati da regole chiare, non seguono principi e normative di “par condicio”. Hanno un enorme potere che utilizzano spesso in modo non imparziale, seguendo le direttive delle rispettive proprietà, spesso in mano, come sottolinea Trump, a imprenditori schierati con la sinistra lib-dem. Piaccia o meno il presidente americano, lo squilibrio da lui denunciato effettivamente c’è e sarebbe ora, data l’importanza assunta dai social ai giorni nostri, che la questione venisse affrontata per dare maggiori garanzie di un trattamento equo e non ideologicamente orientato agli utenti. Un conto è violare norme e leggi, un altro esprimere opinioni non condivise dai vari Dorsey o Zuckerberg.