Dare risposte alle questioni aperte
a cura di Mario Bozzi Sentieri

La vicenda della cooperante milanese Silvia Romano, impone, per la sua gravità, una lettura più approfondita, che vada oltre la stessa figura della cooperante. Il trionfalistico ritorno in Italia, alla presenza del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, non ha del resto fatto venire meno i dubbi sulle modalità della liberazione della Romano. Da un certo punto di vista li ha perfino aggravati, scatenando polemiche di taglio politico e attacchi personali, che hanno “depistato” l’attenzione rispetto agli elementi sostanziali della vicenda.
Per cercare di delimitare i confini reali della vicenda abbiamo intervistato Alfredo Mantovano, magistrato, direttore responsabile di L-Jus, la rivista semestrale on line del Centro studi Livatino, di cui è vicepresidente, con esperienze pregresse in tema di sicurezza in Parlamento e al Governo.

Da dove partire per cercare di ricostruire, senza facili strumentalizzazioni di parte, la recente liberazione di Silvia Romano ed il suo ritorno in Italia?
Dalla natura terroristica della vicenda. Come riferito da più fonti mediatiche, e come è presumibile in considerazione dei luoghi del rapimento e della prigionia, l’uno e l’altra sono stati gestiti da bande criminali e dall’organizzazione al-Shabab. Al-Shabab è un gruppo terroristico che ha nei sequestri di persona, ma anche di imbarcazioni nel mare di Somalia, una delle fonti di finanziamento. Per anni gli attacchi terroristici di matrice islamica sono stati al centro dell’attenzione, soprattutto quando hanno interessato le strade e le piazze delle nostre città. Da quando lo Stato Islamico ha subito una serie di sconfitte nei territori nei quali si era radicato, fra Siria e Iraq settentrionale, l’audience sul tema è notevolmente calata. Ma questo segnala la superficialità delle reazioni mediatiche, non già la scomparsa del fenomeno, che peraltro ha continuato a far registrare attentati e omicidi in zone lontane dagli occhi, e quindi dal portafoglio e dal cuore: a chi interessano i conventi distrutti e i religiosi annientati in Siria, o le giovani cristiane rapite, stuprate e uccise da Boko Haram in Nigeria, o le chiese fatte esplodere in Sri Lanka o in Egitto?
Come vanno giudicate le scelte della giovane durante i mesi di prigionia?
Non vanno giudicate. E’ ragionevole pensare che una giovane che si trova in totale isolamento a migliaia di km da casa nelle mani di criminali sconosciuti non abbia né libertà fisica, né libertà morale. Trovo triste tuttavia che le polemiche e i contrasti siano ruotati attorno a lei, e non si sia affrontata in modo chiaro e diretto la questione vera, che è quella della persistente operatività di organizzazioni terroristiche islamiche.

Al centro della vicenda c’è il tema del riscatto e dei possibili beneficiari. E’ realistico pensare che sia stato veramente pagato?
Il Presidente del Consiglio ha mantenuto il silenzio sul punto, pur non avendo fatto mancare la sua presenza e la sua voce al rientro in Italia della giovane. Il ministro degli Esteri ha invece sostenuto che a lui non risulta alcun pagamento; il che, con lo scarso coordinamento spesso mostrato fra i vari ministri, non significa negare che il pagamento sia avvenuto, ma solo che si tratta di particolare ignoto al titolare di uno dei dicasteri più importanti. Per il rilievo della vicenda, il Governo – e chi in esso ha la delega ai Servizi di informazione e sicurezza, quindi il Presidente del Consiglio – non può fare mancare una seria informativa al Parlamento, in particolare al Copasir, l’organismo parlamentare di verifica e di controllo dell’attività dei Servizi. Si può comprendere che finora siano stati pubblicamente omessi molti particolari, anche della liberazione: divulgare tutto comprometterebbe eventuali informatori e collaboratori in territori difficili. Tuttavia la forma ristretta del Copasir e il riserbo che ne connota i lavori fornirebbero le adeguate garanzie di riservatezza. Qualche forza politica (in particolare, Fratelli d’Italia) ha chiesto l’audizione in quella sede del Capo del Governo: mi auguro che segua a breve.

Veniamo ai beneficiari della somma. Chi sono i terroristi di al-Shabab?
Al-Shabab appartiene al network di al-Queda, che controlla le aree nelle quali sono avvenuti sia il rapimento che la liberazione. I suoi aderenti sono – per ricordare una delle loro gesta più efferate – gli autori della strage di Garissa, nelle vicinanze di Nairobi, del 2 aprile 2015, allorché oltre 150 universitari furono uccisi uno per uno dopo la prova di recitazione del Corano: fu tagliata la testa di chi non lo conosceva a memoria.

Esistono margini d’intervento da parte del governo italiano per limitare l’operatività di al-Shabab?
Poiché è certo che il denaro ricevuto per la liberazione di Silvia Romano servirà per acquistare più armi, compiere più attentati, e organizzare nuovi sequestri di persona e di navi, in una zona marina di rilevante interesse economico, bisognerebbe sapere se il Governo italiano intende proporre una collaborazione ai Governi somalo e keniota per limitare l’operatività di questo gruppo criminale, che sarà senza dubbio incrementata dalle risorse ricevute. Magari sollecitando il coinvolgimento di quella Turchia – nostra alleata nella NATO – che, come è stato riferito ufficialmente, ha avuto un ruolo nell’esito positivo di questa vicenda, grazie all’influenza che esercita in quell’area, ed esigendo l’appoggio dell’Unione europea. Se una iniziativa del genere non fosse realizzabile, andrebbe spiegato perchè: in un passato anche recente dall’Italia sono partite missioni militari all’estero, impegnate nel sostegno alle autorità di singoli Stati aggrediti dal terrorismo; talune di esse sono ancora in corso, e l’area somala è al tempo stesso fra le più colpite, e fra quelle che per ragioni storiche giustificherebbe un intervento italiano. Sarebbe singolare se l’Esecutivo italiano si ritenesse appagato della liberazione della giovane milanese: che è importante che sia avvenuta, ma che non risolve la questione in prospettiva.

Sono ipotizzabili interventi legislativi in grado di bloccare richieste simili da parte di altre organizzazioni terroristiche internazionali?
Esiste una antinomia con cui fare i conti. In Italia, dopo anni di sequestri di persona a scopo di estorsione – oltre 450 fra il 1970 e il 1990 -, consumati fra Calabria, Sardegna e Lombardia, la svolta e l’azzeramento del fenomeno vi furono quando una legge, la n. 82/1991, stabilì l’obbligo del sequestro del beni del sequestrato e dei suoi familiari. Il periodo seguente fu drammatico, ma è stata la carta vincente. E’ vero, un conto è l’ordinamento interno di uno Stato come l’Italia, che è in grado di controllare il proprio territorio, un conto è muoversi all’estero, in aree ostili, avendo a che fare con autorità locali non sempre affidabili, comunque deboli. E tuttavia il sistema andrebbe riportato a coerenza. Esistono peraltro precisi obblighi europei: nel documento del Consiglio UE del 30 novembre 2005, cui ha concorso anche l’Italia, si legge del comune impegno di “smantellare l’attività terroristica e perseguire i terroristi oltre frontiera”, mentre più di recente la direttiva 2017/541 disegna in termini stringenti gli obblighi di prevenzione e di contrasto al terrorismo gravanti sui paesi membri. Esistono obblighi internazionali, a cominciare dalla Convenzione di Palermo dell’ONU in tema di contrasto al crimine organizzato e al terrorismo: non attribuire cogenza a essi mina la credibilità e la coerenza del nostro Paese nella lotta alla criminalità, soprattutto terroristica.

Esiste una responsabilità oggettiva da parte di una Onlus come quella a cui Silvia Romano apparteneva e per conto della quale operava in Africa?
Non è solo una responsabilità oggettiva, tant’è che è stata avviata una indagine penale sulla Onlus per la quale Silvia Romano era presente nella zona del rapimento (Africa Milele onlus): sul Corriere della sera del 12 scorso Gianfranco Cattai, presidente di Focsiv, federazione di 87 Onlus di cooperazione e volontariato internazionale, ha affermato che “nessuna delle nostre associazioni avrebbe fatto partire una ragazza sola e per giunta diretta in un Paese con tensioni interne come il Kenia”. Un nodo da affrontare è proprio quello relativo allo statuto delle Ong. Si tratta di organizzazioni private che sono ammesse a fruire di finanziamenti pubblici, in buona parte provenienti dall’UE, allo scopo di realizzare progetti ricadenti, fra l’altro, nell’ambito della cooperazione internazionale e degli aiuti umanitari. L’estrema pericolosità delle condizioni di intervento dovrebbe indurre le organizzazioni che fanno questa scelta a seguire protocolli di sicurezza rigorosi, a partire dalle necessarie informative da rivolgere agli Stati di provenienza e a quelli dove si va ad operare, prima della partenza e durante la permanenza in un territorio a rischio. Ciò anche perché le missioni riguardano molto spesso zone nelle quali i cooperanti vengono considerati dalle parti in conflitto non per quello che fanno ma per quello che sono, cioè occidentali, dunque nemici. La vicenda di Silvia Romano dimostra quanto sia attuale la questione.