di Carlo Buttaroni
Presidente Tecnè

Sul sito del Ministero della Pubblica Amministrazione è pubblicato un articolo del 16 febbraio 2020, firmato da Marco Rogari (Il Sole 24 Ore). Il titolo spiega efficacemente il contenuto: “Piano anti burocrazia con task force e corsia preferenziale per l’energia”. Anche la pagina della Ministra Fabiana Dadone apre sullo stesso tema, con una dichiarazione di condivisibili principi: “La Pubblica Amministrazione non è una torre d’avorio separata dal resto della società civile. Ecco perché serve un nuovo patto tra la PA e la comunità nel suo complesso, a partire dalle imprese, i professionisti, il terzo settore, i territori. E, naturalmente, i cittadini tutti: l’amministrazione è pubblica non perché appartenga allo Stato o a qualche grande burocrate, ma perché è mia, vostra, di ciascuno”. La Ministra chiude la sua presentazione con un solenne impegno: “La PA deve diventare amica delle imprese, perché uno Stato leggero e ben organizzato può offrire alle nostre aziende una infrastruttura imprescindibile per crescere bene.”. Tutto giusto. Anzi, giustissimo. Anche perché il peso della burocrazia, in Italia, è un problema maledettamente serio. Eppure la “burocrazia” nasce per tutelare i cittadini. Secondo Weber, si fonda, almeno in teoria, sulla divisione del lavoro, sulle competenze e su gerarchie regolate dal merito. E’ orientata alla realizzazione del bene collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità. Questo in teoria, in pratica è un’altra cosa. Secondo i dati di Eurobarometro, la complessità delle procedure amministrative è ritenuto un problema dall’84% degli imprenditori italiani. Per quanto riguarda il peso della pubblica amministrazione, su 28 Paesi monitorati, l’Italia è al 23esimo posto. Uno studio della CGIA di Mestre segnala che, tra Inps, Inail, Ispettorato Nazionale del Lavoro, Agenzia delle Entrate e via di seguito, le piccole e medie imprese italiane possono subire visite e accertamenti ogni tre giorni, festivi e domeniche incluse, con 122 controlli l’anno da parte di 19 soggetti pubblici differenti. Sempre secondo gli artigiani di Mestre, l’incidenza delle “scartoffie” è pari al 4% del fatturato di una piccola impresa. Una “mala-burocrazia” che poggia su oltre 136mila norme e costa all’Italia che lavora (secondo una ricerca Tecnè) 60 miliardi di euro l’anno, come somma di risorse finanziarie, personale dedicato e tempo sottratto alla produzione. Va peggio a chi vuole iniziare una nuova attività: la CNA ha stimato che per aprire un salone di acconciatura occorre rivolgersi a 26 enti diversi, fare 39 file, 65 adempimenti e spendere circa 18 mila euro. Questo mastodontico apparato, che imbriglia le imprese e scoraggia gli investitori, già in tempi normali è una zavorra insostenibile che comprime la crescita dell’Italia, ma nella fase drammatica che stiamo vivendo rischia di trascinare a fondo il Paese. I rendiconti economici delle imprese sono un bollettino di guerra, con gli effetti equivalenti a quelli di una bomba al neutrone, quel micidiale ordigno che lascia intatti gli edifici e colpisce gli esseri viventi. Non ci sono macerie, né ponti distrutti, ma mutazioni profonde nel DNA economico e sociale del “sistema Italia”. Per rendersene conto basta affacciarsi dalla finestra. Se sul fronte sanitario la risposta è stata immediata ed efficace, altrettanto non si può dire sul fronte economico. I poteri affidati alla Protezione Civile e lo straordinario impegno di governatori e sindaci, hanno praticamente azzerato i tempi della burocrazia e permesso acquisti, trasformazioni e realizzazioni persino di nuovi ospedali. Basta citare il caso della Liguria dove il Presidente Toti, in pochi giorni, ha allestito una nave traghetto trasformandola in ospedale in grado di ospitare numerosi malati. Ma gli esempi sono moltissimi. Cose impensabili in tempi normali. Se molto, quindi, è stato fatto sul fronte sanitario, su quello dell’emergenza economica non c’è stato nulla di equivalente. Le stesse misure messe in campo dal Governo rischiano di rimanere imbrigliate nelle procedure, con le imprese e i lavoratori abbandonati tra l’incudine della burocrazia e il martello della crisi economica. Alcune scadenze sono state prorogate ma, nel complesso, è veramente poca roba. Sicuramente è molto meno di quello di cui avrebbe bisogno il Paese per riprendersi velocemente una volta finita l’emergenza sanitaria. Quanta poca attenzione sia data a misure di grande efficacia economica e a “impatto zero” sui conti pubblici, come appunto lo snellimento burocratico, lo testimonia il prolungamento di due anni dei controlli fiscali che scadevano nel 2020. Un provvedimento che, in questo momento, assomiglia più a una inclinazione ossessivo-compulsiva piuttosto che a un riflesso di razionalità economica. C’è un aspetto di questa crisi di cui bisogna essere consapevoli: ci vorrà qualche mese ma passerà. Il grande problema che l’Italia ha davanti non è quanto PIL perderà in questi mesi ma quanto riuscirà a recuperarne finita l’emergenza. La priorità assoluta è evitare shock finanziari che compromettano la capacità produttiva e, quindi, la possibilità di ripartire. Per fare questo è necessario immettere massicce dosi di liquidità nel sistema, affinché le imprese non chiudano e i lavoratori non perdano il posto di lavoro. Bisogna fare anche in modo che il denaro arrivi il più velocemente possibile, affinché imprese e lavoratori possano poi ricominciare a produrre a pieno regime. Quindi bisogna snellire, snellire e ancora snellire. Altrettanto devono fare le banche e gli istituti finanziari. Anche in questo campo, un intervento del Governo sarebbe auspicabile, con una moratoria che spenga tutti i vari semafori che regolano l’accesso al credito. Così come serve una moratoria sulla CRIF, cioè la centrale rischi finanziari. Se un imprenditore ha un conto scoperto, anche solo di qualche centinaio di euro, o non riesce a pagare un finanziamento di qualche tipo, è segnalato alla centrale rischi e questo gli pregiudica l’accesso al credito, con conseguenze facilmente immaginabili. Alcune banche si stanno organizzando: le aziende che ritengono di essere in difficoltà possono inviare una richiesta “formale” di sospensione dei pagamenti. L’iniziativa è lodevole da parte di chi la propone, ma inadeguata per diversi motivi: non tutti la stanno promuovendo, la valutazione è discrezionale e – non da ultimo – i tempi necessari all’espletamento della domanda non sono così brevi. Se vogliamo uscire dalla crisi non servono moduli da riempire e domande da presentare, ma aiuti economici concreti per sostenere lo sforzo e il sacrificio delle imprese e dei lavoratori. Insomma, le risposte devono arrivare prima delle domande. Altrettanto fondamentale è predisporre le condizioni affinché la ripartenza non subisca rallentamenti e il Paese, finita l’emergenza, possa spingere sull’acceleratore della ripresa. Ecco perché snellire la burocrazia non è un dettaglio anche in questo senso. Basti pensare che ridurre di un terzo il tempo che le imprese devono dedicare a riempire moduli e scartoffie varie, equivale a destinare 20 miliardi alla produzione e agli investimenti. Il tutto, con effetti positivi sull’intero sistema economico. Per esempio: una semplificazione burocratica che mettesse l’Italia in linea con la media dei Paesi UE darebbe una spinta al PIL, solo per quanto riguarda le risorse interne da destinare alla produzione, stimabile tra l’1,6 e l’1,8 per cento. Riformare la pubblica amministrazione e farlo in tempi brevi, nella direzione indicata dalla stessa Ministra Dadone sul suo sito istituzionale, non è una missione impossibile. Al contrario, è ciò che bisogna fare subito, perché l’Italia e gli italiani non possono permettersi di avere le gambe legate da una burocrazia lunare mentre sono impegnati nella sfida della vita.

(articolo pubblicato sull’Agenzia Dire)