di Mario Bozzi Sentieri 

Quanto costa l’e-commerce? Non parliamo – sia chiaro – dei costi d’invio dei singoli pacchetti, quanto piuttosto dell’impatto sociale e ambientale che l’espansione delle consegne a domicilio stanno provocando sulle nostre città. In apparenza l’e-commerce sembra essere un efficace strumento per garantire acquisti a buon mercato e a stretto contatto con le esigenze del consumatore. I numeri parlano chiaro.  Il fatturato dell’e-commerce quest’anno dovrebbe salire a 1.950 miliardi di euro nel mondo, di cui 400 in Europa (dati eMarketereEcommerce Foundation). Non si tratta più di un mercato di nicchia, perché man mano che la penetrazione tecnologica aumenta, il numero degli utenti-acquirenti online segue. In buona sostanza, il 10,1% delle vendite nel mondo quest’anno avverrà online, ma nel 2021 dovrebbe raggiungere il 16% a quota 4.479 miliardi di dollari. USA e Cina rappresentano da sole il 69% del business e con l’Europa arrivano al 95%. Tutto bene, dunque? In realtà – in un mondo in cui sembra aumentare  l’attenzione verso la tutela dell’ambiente – proprio dall’e-commerce passa un aumento delle emissioni inquinanti. Anche qui i numeri parlano chiari. Secondo il rapporto di McKinsey il numero dei veicoli commerciali nel mondo è cresciuto da 250 a 330 milioni di unità nel mondo tra il 2006 e il 2014. A provocare questo aumento (più 32%) il diffondersi delle consegne a domicilio, attraverso gli acquisti online, sempre più veloci, efficienti, puntuali, a scapito di un generale ingolfamento del traffico delle città con conseguente emissioni di gas di scarico inquinanti da parte di furgoni proporzionalmente più inquinanti degli altri veicoli. A Londra, ad esempio, i furgoni delle consegne rappresentano il 30% delle emissioni inquinanti, nonostante siano appena il 10% del parco macchine in circolazione. Per non parlare dell’aumento del tempo trascorso alla guida per gli automobilisti, conseguenza proprio dell’impennata di presenza di furgoni per le consegne. McKinsey stima che se nella capitale britannica erano necessari 20 minuti per compiere un tragitto nel 2012, adesso ne servono 25. Un abitante di Los Angeles, poi, passerebbe in strada due settimane lavorative all’anno della sua vita. Quali le possibili soluzioni? Un rimedio consisterebbe nel fare uso di furgoni elettrici per le consegne, che non emettendo sostanze inquinanti, contribuirebbero a ridurre l’impatto negativo sull’ambiente. Al momento questo tipo di furgoni rappresentano però un’esigua minoranza. Secondariamente, si potrebbe optare per consegnare la merce anche di notte, fatto questo che inciderebbe però sul rapporto con il cliente (costretto ad essere disturbato nel sonno), sull’importo dei salari per i lavori notturni (con ricadute sui prezzi finali del prodotto) e sullo stesso inquinamento, spostato dal giorno alla notte. Ci sono poi dei costi sociali e culturali che non possono essere sottovalutati. Essi gravano sullo stesso tessuto urbano letteralmente assediato e spogliato delle sue prerogative commerciali. Negli ultimi 10 anni sono quasi 63mila i negozi che hanno abbassato per sempre la serranda, con il numero degli esercizi commerciali in calo del 11,1% rispetto al 2008. Un dato preoccupante contenuto nel rapporto “Demografia d’impresa nei centri storici italiani” realizzato da Confcommercio. Tra le realtà più inquietanti messe in evidenza dallo studio c’è quella dei centri storici delle principali città italiane, che dal 2008 ad oggi hanno visto scomparire quasi il 12% degli esercizi commerciali. La riduzione dell’offerta commerciale rappresenta dunque un impoverimento reale, economico e culturale, per le nostre città. A venire meno non c’è infatti solo la filiera del commercio ma anche il presidio del territorio (con conseguenti ricadute sull’ordine pubblico e sulla stessa estetica urbana) e – più in generale – un graduale abbandono di spazi ricchi di storia, di tradizioni, di coesione sociale. In questi contesti la via più immediata è recuperare il rapporto tra cittadino e centro storico attraverso politiche a  favore delle piccole realtà commerciali e della piena fruibilità dei centri storici delle nostre città. Al fondo la ripresa di consapevolezza rispetto ad  una cultura complessa e stratificata in grado di dare organicamente senso e valore ai diversi ambiti della vita delle nostre comunità, dal commercio al vivere civile, alle architetture dei nostri centri urbani. Parafrasando Jean Fourastié che, già cinquant’anni fa, scriveva “Non è bene che Parigi divenga Los Angeles più Notre-Dame; né che Atene divenga Toronto più l’Acropoli” va, oggi, detto che – nel segno di un commercio sregolato – non è bene che Roma divenga Amazon più il Colosseo; né Firenze Alibaba più Palazzo Vecchio. Vorrebbe dire il trionfo dell’Ecumenopolis senza anima.