di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Ieri, con un lungo discorso, Luigi di Maio ha ufficializzato le proprie dimissioni da capo politico del M5s, anche se, di fatto, capo non lo era più già da tempo, precisamente dalla scorsa estate, quando, con una fulminea ridiscesa in campo, Grillo, dopo la crisi dell’esecutivo gialloblu, gli aveva imposto la rotta da seguire – ovvero l’alleanza col Pd – e lui, seppur evidentemente riluttante, si era adeguato. Un comportamento da gregario, non certo da leader. La questione della crisi di identità, dello stesso Di Maio e dell’intero Movimento, è tutta qui. Certo, sia lui personalmente che i grillini in generale già pagavano il prezzo della difficoltà di confrontarsi con la politica vera, di governo, ben altra cosa rispetto all’opposizione dura e pura che può permettersi chi non ha nessuna responsabilità. Ma su questo, forse, gli elettori avrebbero dimostrato, alla lunga, dopo qualche flessione nei consensi, maggiore comprensione. Quello che, invece, ha segnato un punto di non ritorno per Di Maio e per tutto il M5s è stata proprio l’idea di un’unione strutturale con i dem. Per varie ragioni. Dal punto di vista personale, il capo politico è stato costretto a seguire obtorto collo una linea non condivisa, quindi di fatto esautorato dal garante e privato di autorevolezza. Dal punto di vista politico, questa nuova linea imposta da Grillo ha significato una vera e propria trasformazione dell’identità pentastellata, che prima era fondata sul superamento delle ideologie in nome dei temi concreti e sul rifiuto di collocarsi all’interno dello schema bipolare – posizione che era stata mantenuta ai tempi del governo con la Lega, che, infatti, era basato su un contratto scritto e non su un’alleanza politica – e che ora invece è stata del tutto abbandonata in favore di un posizionamento organico nella compagine di centrosinistra. Prima il M5s sosteneva di occuparsi di contenuti, non di etichette. In questo modo aveva ottenuto dei risultati: la buona parte delle proposte grilline trasformatesi in legge, se non tutte – reddito di cittadinanza, decreto dignità, spazzacorrotti – risale al periodo gialloblu, quando le due forze di governo trovavano una mediazione, seppure partendo da posizioni spesso opposte. Ora che i pentastellati sono stati cooptati nel centrosinistra, gli “alleati strutturali”, invece, boicottano o annacquano ogni loro iniziativa. Forse, fra l’altro, come movimento di popolo e non di regime, avevano più punti in comune col vecchio, piuttosto che con i nuovi compagni di governo. L’ex capo politico, nel suo discorso d’addio, ha provato a ribadire la necessità di essere alternativi sia alla destra che alla sinistra, ma ormai la decisione è stata (da altri) presa: fare del Movimento – e della sua copia sbiadita, le sardine – una stampella per il claudicante Pd. Togliendogli di conseguenza identità, ragion d’essere e quindi voti e proiettandolo in una parabola discendente. Di Maio, uno dei pochi consapevoli, ha provato a dissociarsi, ma ormai troppo tardi e ancora troppo timidamente.