di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Il governo avrebbe intenzione di estendere periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per la nascita o l’adozione di un figlio, attualmente pari a 5 mesi, portandolo a 6, un mese in più, stavolta, però, non per le mamme, ma per i papà. Oggi ai padri spettano 7 giorni, sono aumentati a partire dal 2020, retribuiti al 100%, mentre l’astensione obbligatoria delle madri è retribuita all’80%, più un giorno di congedo facoltativo in alternativa alla madre. Questa la situazione che riguarda i lavoratori dipendenti. L’idea di estendere l’astensione obbligatoria e destinarla ai padri contiene elementi interessanti per sostenere genitorialità e conciliazione coinvolgendo maggiormente gli uomini, ma ci sono anche alcuni aspetti controversi da approfondire. Sempre che vada in porto, questa riforma non è “a costo zero”. L’indennità per il periodo di astensione obbligatoria è, infatti, a carico dell’Inps e un aumento del periodo ricadrebbe sulle casse dell’istituto, per una spesa all’incirca corrispondente a un 20% in più rispetto a quella attuale, non considerando il fatto che l’indennità stessa è proporzionale alla retribuzione e, dato che in media gli stipendi degli uomini sono più alti, forse ci sarebbe da spendere anche qualcosa in più. Alle famiglie, invece, il mese di astensione obbligatoria del padre dal lavoro costerebbe in termini di entrate, il tutto presupponendo anche in questo caso, come per l’astensione della madre, un’indennità pari all’80% dello stipendio. Il gap salariale, purtroppo c’è e, se l’intenzione è quella di aiutare nel concreto le famiglie e non solo ideare misure “spot” bisogna farci i conti. Insomma, la misura, invece che avere l’effetto migliorare la situazione per le mamme, potrebbe avere il risultato di peggiorare quella dei papà, con un “mal comune” che non sarebbe affatto un mezzo gaudio se l’obiettivo è quello di invertire il trend della denatalità, offrire reali pari opportunità alle donne e sostenere le famiglie. Non solo, resterebbero del tutto estranei alla misura i collaboratori, le partite iva, gli autonomi, tutte quelle figure di lavoratori formalmente indipendenti, alcuni dei quali para-subordinati o con redditi bassi e già molto meno tutelati – donne o uomini che siano – al momento della nascita o dell’adozione di un figlio. Prima di investire risorse pubbliche, per di più sapendo bene quanto siano scarse in questa fase storica, occorrerebbe mettersi all’ascolto dei bisogni reali e concreti delle persone interessate. I problemi relativi alla conciliazione non si fermano ai primi mesi di ingresso nel nucleo familiare del bambino, ma durano per anni, a causa dell’assenza di un sistema di welfare adeguato alle esigenze contemporanee. In termini di quantità di servizi disponibili e di tempi raccordati a quelli del mondo del lavoro, in termini di diffusione – anche grazie a incentivi fiscali adeguati – dell’utilizzo di strumenti family friendly nelle aziende, e qui molto potrebbe fare il “contratto di comunità” per coinvolgere le moltissime imprese di piccole dimensioni che da sole non sarebbero in grado di avviare tali strumenti, e in termini di modernizzazione dell’organizzazione del lavoro grazie alle nuove tecnologie che in molti casi consentirebbero il lavoro da remoto. Per aiutare i genitori che lavorano – mamme e papà – a gestire meglio il proprio tempo, a beneficio di famiglia e carriera.