di Mario Bozzi Sentieri

Prepariamoci – viste le premesse – a un 2020 in cui a “dare la linea” della politica nazionale, ben oltre le contingenze, sarà il peggiore nostalgismo antifascista. Lo si è visto nell’anno appena trascorso, dove tra (immaginarie) onde nere, emergenze democratiche e banalizzazioni storiche è stata la retorica antifascista a dettare legge. L’anno appena iniziato, calendario alla mano, ci porterà il settantacinquesimo anniversario del 25 aprile, occasione ghiotta, data alle vestali dell’antifascismo, per riperpetuare l’idea della memoria come mezzo di lotta politica. Poca Storia insomma e tanta facile retorica, laddove il tempo trascorso dovrebbe ormai invitare ad analisi meno scontate e soprattutto meno strumentali. A una sinistra culturalmente allo sbando, priva com’è di chiare visioni politiche (e per questo in grande affanno, come hanno dimostrato, nel 2019, le imbarazzate cronache dedicate alla caduta del Muro di Berlino) l’antifascismo continua a rappresentare il classico salvagente a cui attaccarsi. Un salvagente – sia chiaro – vecchio e rattoppato, ma di facile smercio, anche dopo tanti anni. Quanto l’antifascismo sia inadatto a superare gli attuali marosi della politica e dei mutamenti sociali ci viene confermato da ciò che scriveva, nell’ottobre 1945, Ignazio Silone, su “Avanti!”, quotidiano del Partito Socialista. Silone non era un antifascista qualunque. Soprattutto non era uno dei tanti “voltagabbana”, scopertisi antifascisti a Regime caduto. Esule antifascista, intellettuale “disorganico”, “socialista senza partito” e “cristiano senza Chiesa”, peraltro legato alla memoria di Don Orione, con cui aveva avuto un significativo incontro in gioventù, Silone non a caso era stato espulso, negli Anni Trenta, dal Partito Comunista, per dissidenza antistalinista, riconoscendosi poi nel socialismo democratico-riformista (fatto questo che gli costerà, per anni, l’ostracismo della critica italiana, gramscianamente controllata dal partito togliattiano e filosovietico). “Ciò che mi colpì nei comunisti russi – dichiarò a Indro Montanelli – anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile”. A sei mesi dalle drammatiche giornate dell’aprile 1945 Silone lancia, sulla prima pagina dell’Avanti!, l’appello “Superare l’antifascismo”, che rappresenta, pur nella sua sinteticità, ancor oggi, un efficace vaccino alla vecchia e nuova retorica antifascista. L’idea di fondo è che, una volta liberatasi dal fascismo, l’Italia dovesse cercare di superare anche l’antifascismo. “Una tale necessità – scrive Silone – può essere serenamente e fortemente concepita da noi socialisti, per la semplice ragione che il socialismo non si esaurisce nell’antifascismo. Il socialismo è più antico, più duraturo, più preciso, più vasto, più profondo dell’antifascismo”. L’invito è a “disancorare la vita italiana dall’atteggiamento negativo dell’antifascismo” per affrontare i problemi reali del Paese, appena uscito dalla guerra, superando, nel contempo, le nuove e vecchie “fratture” (non a caso Nenni – nota Silone – si muove cercando di ridurre le politiche “epurative” nei confronti degli fascisti). Con in più la necessità di non cadere prigionieri delle logiche “oligarchiche”, insite nel nuovo potere dei partiti: “La democrazia alla quale noi aspiriamo non può essere, non dev’essere, una democrazia di comitati o di segretari federali, una “république des camarades” o dei compari; ma la democrazia, la repubblica di tutti i cittadini; una democrazia nella quale la legge protegga le minoranze dalle sopraffazioni della maggioranza e dia ogni possibilità alle minoranze di diventare a loro volta maggioranza”. Nelle parole di Silone c’è già la consapevolezza dei rischi della partitocrazia, con cui l’Italia repubblicana da decenni continua a fare i conti, e insieme dell’ipocrisia delle coperture antifasciste (la “république des camarades” o dei compari) che costi altissimi ha fatto pagare agli italiani. Non ultimo lo svilirsi di molti partiti nella mera retorica antifascista. Con l’antifascismo rischiano insomma di esaurirsi – è il ragionamento di Silone – le stesse ragioni d’essere dei partiti, facendo venire meno il confronto politico, insterilendolo in ragione degli interessi di parte e perdendo di vista i problemi reali del Paese. I risultati li abbiamo ancora oggi di fronte. Con in testa il paradosso di un antifascismo ancora da superare. Come settantacinque anni fa.