Cresce quello involontario, con ricadute su stipendio presente e pensione futura

Si tratta, con ogni evidenza, della eredità più controversa che ci lascia un decennio di crisi e di crescita ridotta del prodotto interno lordo, insieme, naturalmente, al raddoppio dei disoccupati, ancora troppo pericolosamente vicini alla soglia dei tre milioni di unità. Fra il 2008 e il 2018, è cresciuto in maniera esponenziale il part time. I lavoratori con contratto a tempo parziale sono infatti aumenti di un milione di unità, passando da 3,3 a 4,3 milioni; considerando che nello stesso periodo di tempo, i lavoratori sono aumentati seppur di poco, il risultato finale è che le ore lavorate sono molte di meno rispetto al passato e che la quota di occupati part time è passata dal 14,3% al 18,5%. La cosa più preoccupante, però, è che questa esplosione del tempo parziale – che, è bene ricordare, ha un doppio effetto diretto e negativo sugli stipendi e sul montante contributivo ai fini pensionistici – è, in larghissima parte (in pratica due su tre), frutto del cosiddetto part time involontario. Il tempo parziale nasce infatti con finalità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, permettendo così soprattutto alle lavoratrici, ma anche a non pochi lavoratori, di assistere figli minori o familiari non autosufficienti, ma si trasforma, con il tempo, in uno strumento utilizzato dalla aziende per ridurre i costi fissi, ricorrendo allo straordinario una tantum per eventuali picchi produttivi.