di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Un’altra bomba sociale sta per esplodere, ma più in sordina rispetto ad altre, Ilva e Alitalia, che hanno, giustamente, conquistato le prime pagine dei giornali: parliamo di Unicredit, che senza battere ciglio ha annunciato una “ristrutturazione” in base alla quale si prevedono 8mila licenziamenti, di cui 6mila in Italia, e la chiusura di 500 filiali, di cui 450 in Italia, il tutto da realizzare entro il 2023. Numeri impressionanti, che preoccupano per il futuro di migliaia di lavoratori che la banca avrebbe intenzione di mettere alla porta. Numeri, poi, che sono anche portatori di ulteriori conseguenze negative sia dal punto di vista economico che sociale, dato che la chiusura delle filiali comporterebbe conseguenze per l’indotto e, specie nei piccoli centri, creerebbe molte difficoltà per i cittadini, i più anziani, abituati al rapporto diretto con gli operatori, o quelli con maggiori difficoltà di spostamento, privati dei necessari punti di riferimento in un settore fondamentale come quello del credito. A differenza, poi, dell’acciaieria e del vettore aereo, qui non ci sono neanche particolari crisi di mercato o problemi strutturali da risolvere. Certo, anche il mondo bancario è in affanno, ma comunque gli affari per l’istituto di credito sembrano andare comunque bene, come dimostrano utili e dividendi. Il sindacato farà il necessario per difendere i posti di lavoro, ma la questione va oltre il caso Unicredit e merita una riflessione più ampia. L’occupazione nel settore bancario negli ultimi dieci anni ha subito una notevole contrazione, con la perdita di 64mila posti di lavoro e la chiusura di un quarto degli sportelli presenti sul territorio. Il ragionamento si potrebbe applicare a moltissimi settori del terziario e sembra drammaticamente semplice, tanto semplice quanto inaccettabile: grazie alle nuove tecnologie le persone non servono più, o meglio ne servono molte meno di prima. Si pensi anche al commercio, alle vendite online, alle casse automatiche nei megastore e così via. Nell’industria avviene qualcosa di simile. Non vogliamo fermare il progresso, le nuove tecnologie hanno semplificato la vita a tutti e nessuno pensa di tornare indietro. Quello che manca, però, è una seria riflessione politica e l’autorevolezza per trasformare poi le riflessioni in provvedimenti in grado di accompagnare il processo di digitalizzazione e robotizzazione nel mondo del lavoro, facendo in modo che esso si trasformi in una risorsa non a beneficio di pochi, ma dell’intera società, mettendo le grandi imprese di fronte alle proprie responsabilità sociali, recuperando la piena coscienza del fatto che non sono enti sganciati dal contesto circostante, ma parte di un patto civico che va recuperato integralmente, in primis per ragioni di equità e a lungo termine anche per garantire la tenuta del sistema economico.