La crisi non perdona e soprattutto non passa, al punto che la soluzione delle vertenze, al di là delle (in)capacità del Governo di turno, diventa sempre più difficile e complessa. Di investitori in Italia non ce ne sono molti e l’incertezza che regna sovrana anche sui mercati internazionali rende gli investitori più cauti, meno disposti a rischiare su breve e medio termine. Sarà per questo anche che dall’ex Ilva e persino per Alitalia si fa strada l’ipotesi, al momento non ancora suffragata dai fatti, di un intervento, ancorché temporaneo o “pseudo”, dello Stato. È vero, l’Italia non è mai stata un campione in materia privatizzazioni – o perché ha svenduto selvaggiamente o perché non è riuscita a “mollare” de tutto – , ma ogni Stato europeo si assicura una “presenza” in assets strategici, predicando poi per gli altri il verbo del libero mercato e della libera impresa nell’Ue, contraria, come si sa a qualsiasi aiuto di Stato. La Francia – che dal 2004 ha l’Ape ovvero Agence des participations de l’État, Agenzia delle Partecipazioni dello Stato – ha solide partecipazioni, vantando nel 2015 un portafoglio di 1500 imprese-partcipazioni. Sebbene la parola nazionalizzazione sia considerata quasi blasfema, in Germania si sta tentando il salvataggio di una banca con capitale pubblico e in particolare dei Lander. Per il futuro dell’ex Ilva che in queste ore sembrerebbe chiarirsi almeno per quel che riguarda lo spegnimento degli altiforni, qualche giorno fa il Sole24Ore – e non Il Manifesto – tra le varie ipotesi prevedeva una amministrazione straordinaria estesa all’intero corpo dell’Ilva con un commissario straordinario sorta di amministratore delegato in grado di operare con pieni poteri, fino a quella più auspicata da tutti, politici e sindacalisti, di una «nazionalizzazione mascherata», attraverso l’utilizzo di Cassa depositi e prestiti o una società da essa controllata, purché con il via libera delle fondazioni bancarie, per finanziare un’operazione che potrebbe costare non meno di un miliardo di euro. Per Repubblica, oggi, su un articolo di Lucio Cillis per Alitalia si è parlato dell’esistenza di un “piano B”, qualora nessun partner industriale dovesse concretizzare l’offerta, ovvero una «nazionalizzazione temporanea». Entro giovedì, con la pronuncia di Ferrovie dello Stato, dopo quella di Lufthansa e e di Atlantia, sul piano Nuova Alitalia, dovremmo sapere cosa succederà. Se tutto dovesse andare male, il piano B di Alitalia durerebbe 12 mesi, durante i quali sistemare il “personale in eccesso” sena traumi e rimettere a punto rotte e flotta. A volte ritornano.