di Francesco Paolo Capone

Segretario Generale Ugl

La vicenda ex-Ilva sta assumendo dei contorni preoccupanti. Conosciamo bene tutti i dettagli di una situazione complessa in cui gli obiettivi da raggiungere sono mantenere la piena occupazione in un’azienda che impiega migliaia di dipendenti, garantire un futuro all’industria italiana, elemento portante per la nostra economia ed il nostro sviluppo, senza la quale si prospetta un declino fatto di dipendenza sempre maggiore dai prodotti provenienti dall’estero, e allo stesso tempo riuscire ad ottenere tutto questo salvaguardando, come in passato non è stato fatto, un bene primario, essenziale e non negoziabile come la salute, per i lavoratori e per cittadini che risiedono nei pressi dell’acciaieria. Non è certo una sfida facile, ma l’eventuale disimpegno da parte di ArcelorMittal non permetterebbe il raggiungimento di nessuno dei tre risultati. Per questo la decisione presa dal Senato, su proposta pentastellata, di abrogare l’immunità penale, a tempo e limitata, che era stata prevista per i manager della multinazionale indiana al fine di portare avanti il piano industriale e ambientale concordato col Governo, ci impensierisce. Potrebbe essere il preludio per un nuovo piano industriale al ribasso in termini di produzione e occupazione, oppure addirittura determinare la chiusura dell’azienda. Per questo, assieme ai nostri metalmeccanici, chiediamo la convocazione urgente di un tavolo di confronto fra sindacati, proprietà e governo al fine di scongiurare ricadute negative dal punto di vista occupazionale, produttivo e ambientale. Non solo. Questa vicenda preoccupa anche perché oltrepassa i limiti della singola, seppure importante, vertenza e getta un’ombra non da poco sulla gestione del Paese. Tante parole erano state spese in passato per rimarcare le profonde differenze fra Lega e M5S e, fra queste, le più importanti riguardavano proprio la politica industriale e furono alla base della crisi di governo dello scorso agosto. Stavolta, invece, non è affatto chiaro cosa stia succedendo. Da un lato c’è un Movimento Cinque Stelle diventato ancor più massimalista, che, con la decisione presa lunedì, ha sostanzialmente sconfessato le posizioni più moderate raggiunte dal suo stesso leader Di Maio nel corso della trattativa sull’acciaieria condotta in veste di ministro dello sviluppo economico. Dall’altro un Pd non pervenuto, schiacciato sulle posizioni dell’alleato di governo, quando, invece, la linea politica dei dem sulla questione era fino a pochissimo tempo fa ben diversa, costretto a digerire il  voto di fiducia sul testo appena approvato pur di evitare le elezioni. Una saldatura fra M5S e Pd, basata sulla volontà di restare al governo a ogni costo, della quale stanno però facendo le spese gli italiani, e questo caso ne è l’ennesima riprova.