di Mario Bozzi Sentieri

Il Sindacalismo nazionale e rivoluzionario è storicamente teorico e pratico, votato all’elaborazione culturale (spesso in funzione formativa)  e all’organizzazione sociale. Il motivo di fondo è che, non avendo una base ideologica rigida, di stampo marxista (e fatalista), esso è problematico e dinamico insieme. Conferma questa “visione” di fondo il recente “Populeconomy – L’economia per le persone e non per le élite finanziarie” (La Meta Sociale, pagg. 121) di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale dell’ Ugl (Unione Generale del Lavoro). Quella di Capone è un’analisi “di prospettiva”. E già questa è una novità rispetto agli attuali  mondi della cultura, della politica e del sindacato, troppo spesso ripiegati su sé stessi, impegnati più a confrontarsi (e a polemizzare) che a prefigurare il futuro. “Populeconomy” è un neologismo che sintetizza una necessità e traccia una linea: guardare ad un’economia che sia a favore delle persone e del lavoro, invitando innanzitutto a prendere coscienza delle nuove povertà, di quei “poveri grigi” (il neoproletariato) in bilico tra normalità e miseria. Le storie – ci dice Capone – sono tante: “dipendenti con reddito fisso che hanno visto scemare il loro potere d’acquisto, anziani che percepiscono pensioni troppo basse, lavoratori precari o flessibili, famiglie numerose”. Si tratta di una massa di diciotto milioni di italiani con cui è inderogabile fare letteralmente i conti, nella misura in cui è  da qui che nasce la nuova “questione sociale”, diversa da quella di stampo operaista, che ha segnato il XX secolo. Una “questione sociale” che per misurarsi realisticamente nella realtà deve innanzitutto  variare i parametri di riferimento (l’unità di misura della ricchezza) guardando non solo al prodotto interno lordo ma anche al “tasso di equità”, in grado di attivare scelte “di  sistema” volte a ridurre le distanze economiche e sociali, attraverso una ri-valorizzazione del lavoro e un ri-orientamento delle politiche sociali. Da questa presa di coscienza parte la necessità di attivare la spesa sociale, attraverso un’attenta programmazione e pianificazione (termini di cui si è perduta la memoria) che coordini gli attori del welfare, pubblici e privati, oggi orientati prevalentemente a fornire sostegni economici piuttosto che tracciare percorsi di reinserimento. In questo ambito un ruolo speciale può giocare il sindacato. Per Capone è necessario che le confederazioni sindacali facciano i conti con una crisi d’identità e di funzione (rimarcata dalla diminuzione degli iscritti) provocata dai mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro, segnato dalla flessibilità dei salari e dell’occupazione, dalle nuove tecnologie e dall’emergere di nuove competenze/professionalità. Il primo passo deve essere perciò in direzione di un nuovo modello sindacale che sappia accompagnare i processi di innovazione e di modernizzazione, ritrovando un protagonismo all’altezza dei tempi. Capone, in “Populeconomy”, indica alcuni temi essenziali su cui impegnarsi: rompere con il declino economico e sociale, facendo ritornare l’Italia ad essere competitiva nel mondo globalizzato; guardare con occhi nuovi ai giovani “anello debole” della filiera sociale; spezzare la spirale della precarizzazione, introdotta dal cosiddetto “Job’s Act”; ripensare la globalizzazione, spesso subita più che “governata”. Rispetto a questi temi di fondo ad emergere sono una politica di lunga durata (in grado di garantire “buona occupazione”); la necessità di investire nell’istruzione, nelle competenze e nell’apprendimento permanente; l’introduzione di  principi regolatori in grado di sovraintendere i sistemi complessi, per governarne gli sviluppi e compensarne le inevitabili distorsioni; il puntare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, spostando il baricentro della contrattazione, garantiti i diritti non negoziabili e la base retributiva,  verso i luoghi di lavoro, “nella convinzione che i comuni obiettivi di produttività e di benessere per i lavoratori siano più facilmente raggiungibili”. Di fronte a questo insieme di problemi aperti le risposte “di sistema” continuano ad essere rinchiuse nelle politiche di austerità, autentico farmaco mortale contro un Paese già fortemente debilitato, laddove la vera partita economica e sociale andrebbe  giocata  sul piano non esclusivo dei bilanci e delle politiche finanziarie. E qui entra il campo la politica. Dalla crisi di ruolo e di riconoscibilità del sindacato alla globalizzazione, dalla precarizzazione alle nuove povertà, dai “nuovi lavori” alla crisi demografica, il coacervo delle emergenze nazionali si focalizza, in Italia, nella più vasta crisi politica e nella debolezza del ceto dirigente a cui fa riscontro – come ben evidenziato da Capone – il formalismo costituzionale, fissato negli articoli a più alto valore sociale. La questione vera è che dai principi sia necessario  passare ai fatti, alle scelte legislative e programmatiche. In questo ambito bisogna dare atto all’atto all’autore di “Populeconomy” di uscire fuori dalle facili dichiarazioni teoriche, facendo emergere una nuova concretezza programmatica, con un’attenzione particolare ai più vasti contesti europei: un’Europa diversa da quella attuale in cui siano rispettate le singole autonomie nazionali, venga limitato il potere della finanza, sia posto al centro l’interesse dei popoli. Rispetto a questi scenari il sindacalismo può – alla prova dei fatti – dare il suo contributo, costruttivo ed operativo. Offrendo visioni inusuali e nuove chiavi di lettura. Soprattutto prefigurando un nuovo modello di sviluppo in grado di  fare crescere nuove aspettative verso un futuro che valga la pena di essere vissuto e per il quale, da subito, impegnarsi.