di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Luigi Di Maio come Hiroo Onoda. Fino alla fine strenuo combattente per una causa già persa. È così che appare in questi giorni quello che dovrebbe ancora essere il capo politico dei Cinque Stelle. L’imperatore dei pentastellati, Beppe Grillo, autoproclamatosi l’elevato, ha ormai definitivamente rinunciato alla propria natura divina, abbassandosi a trattare col nemico di sempre, il Pd. Di più: addirittura a caldeggiare vigorosamente la nascita del nuovo governo, con molte meno ritrosie rispetto all’epoca delle trattative con la Lega, ritenendo ormai non necessaria non solo la stipula di un contratto, ma neanche di un programma preciso. Sembrano assai lontani i tempi dello streaming, delle bordate a Bersani e degli sberleffi a Renzi. Il premier uscente nonché Primo Ministro in pectore, Giuseppe Conte, sembra altrettanto favorevole all’accordo e i più maligni lo vedono già pronto a trasformarsi da tecnico super partes, seppure proposto dai pentastellati, in vero e proprio nuovo leader politico dei grillini. Forse lusingato dal nuovo trattamento riservatogli da media e potentati vari, che da quando non rappresenta più i gialloverdi, ma i giallorossi, non lo descrivono più come un insipido burattino dal curriculum taroccato, come facevano senza troppi riguardi fino a poco tempo fa, ma ora lo incensano, innalzandolo a statista del nuovo millennio. Per non parlare di Fico, da sempre considerato vicino alla sinistra. Ai vertici del Movimento, l’unico a resistere alle sirene del Pd sembra quindi essere Di Maio, che con le dure parole seguite alle consultazioni con Conte e il rilancio da dieci a venti punti programmatici, sta tentando disperatamente di mantenere l’ortodossia metodologica pentastellata: l’equidistanza dai partiti, sostanzialmente tutti considerati dei “nemici” da cui guardarsi e con i quali scendere eventualmente a patti, ma con i piedi di piombo, mettendo a garanzia rigidi documenti atti a notificare di preciso cosa fare, quando e come. Se non fosse stato per Di Maio sarebbe probabilmente andata a monte persino la votazione su Rousseau, che invece domani ci sarà. Forse lì si potrà iniziare a verificare quale sia il M5S preferito dai suoi elettori, se quello intransigente di un tempo o quello duttile come non mai di adesso. La piattaforma però, come più volte abbiamo detto, non offre una sufficiente certezza di corrispondere al sentire del mondo pentastellato, anche solo per la considerevole differenza in termini numerici fra elettori grillini e iscritti a Rousseau. Forse la linea di Di Maio potrà trovare una sponda in Parlamento al momento del voto di fiducia, ma verosimilmente alla fine prevarrà Grillo, fondatore, garante e vero dominus del M5S. Almeno fino alle prossime elezioni, che prima o poi ci saranno e che inevitabilmente presenteranno il conto di questa incredibile giravolta, di merito e di metodo.