di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

La crisi di governo non è stata certo un fulmine a ciel sereno. Le tensioni fra Lega e M5S, determinate da visioni politiche diverse su molti temi, erano evidenti già da mesi. Fino a un certo punto i due partiti e soprattutto i due leader Salvini e Di Maio erano riusciti a trovare una sintesi soddisfacente per entrambi. Poi qualcosa si è incrinato e si è arrivati ai fatti ormai noti. Ed ora, dopo mesi in cui il protagonista della vita politica italiana è stato senza ombra di dubbio il segretario della Lega, al centro della scena c’è Di Maio, capo politico del M5S. È a lui che spetta la decisione finale in merito all’esito di questa crisi di Governo, grazie all’alta percentuale di consensi conquistata alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. E, come abbiamo sintetizzato con la metafora del “semaforo” nella prima pagina della Meta, non esistono che tre opzioni per Di Maio: un accordo con il Pd, una ricomposizione della maggioranza con la Lega o le elezioni anticipate. Non si tratta di opzioni equivalenti. Dalla scelta che verrà fatta si potrà comprendere chiaramente la strada che intenderà percorrere il Movimento. Un governo con il Pd, ovvero quello che allo stato attuale dei fatti in Italia è il “partito dell’establishment”, significa abbandonare le radici protestatarie alla base della nascita stessa della formazione politica ed entrare nel novero delle forze di sistema, fedeli alle regole di Bruxelles e ad una visione politica, economica e sociale che si sperava consegnata alla storia. Non basta dire che “questa o quella per me pari sono”. Anche perché a garanzia dell’eventuale alleanza “giallorossa” non ci sono quelle misure che i pentastellati ritennero necessarie per il governo con la Lega: al momento, infatti, non c’è traccia di contratto scritto, né sono in programma consultazioni con la base. Un ritorno all’esperimento gialloverde, o gialloblu che dir si voglia, garantirebbe, invece, la prosecuzione di quel “cambiamento” che le due forze politiche, seppure ognuna in modo diverso, comunque rappresentano e che la stragrande maggioranza degli elettori ha più volte richiesto a gran voce. Insomma, estremizzando, si tratta di scegliere fra “reazione” e “rivoluzione”. Difficilmente, infatti, la vocazione profondamente restauratrice del Partito Democratico potrebbe essere tenuta a bada nell’azione di governo: Zingaretti ha già chiesto chiaramente un completo dietrofront rispetto alle misure varate dall’Esecutivo uscente negli ultimi 14 mesi, praticamente su tutto: Europa, sicurezza, economia, politiche sociali. Se, poi, la rottura consumatasi ad agosto fra Lega e M5S è considerata irrecuperabile da Di Maio, esiste un solo modo per non tornare indietro senza, però, arrendersi al vecchio sistema: la via maestra delle urne, una strada non semplice per il Movimento, ma certamente più trasparente e coerente.