Il Sole 24 Ore guarda alla cosa con un misto di preoccupazione e quasi di incredulità che traspare in maniera dalla sintesi che viene fatta della recente sentenza della Corte di Cassazione sulla licenziabilità per motivi disciplinari, alla luce delle modifiche apportate dal Jobs Act; letto, però, dalla parte del lavoratore dipendente, è un primo passo per ridare un minimo di equità ad un sistema che finiva per trattare in maniera difforme casi simili. Il decreto legislativo 23/2015, quello che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, ha fatto saltare lo stretto collegamento fra licenziamento disciplinare e contratto collettivo nazionale, il luogo deputato a contenere proprio le norme comportamentali con le relative sanzioni. Ciò ha generato una situazione paradossale, per effetto della quale gli assunti prima della data del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015) si ritrovano più tutelati rispetto agli assunti dopo quella stessa data. Già con la riforma introdotta a suo tempo con la legge 92/2012, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori era stato fortemente depotenziato, tanto che l’allora premier Mario Monti aveva indicato una sola via d’uscita: quella di dimostrare l’insussistenza del fatto. Ora la Cassazione allarga l’ipotesi di reintegra anche al caso di fatto realmente accaduto, ma senza che lo stesso abbia rilievo disciplinare, come evidenziato dal giudice.