di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

In Italia il lavoro povero non è certo un problema da poco, riguarda, infatti, milioni di occupati. Da ciò nasce la proposta sul salario minimo legale, che contiene elementi positivi, ma che, allo stesso tempo, investendo un settore molto complesso, comporta anche non trascurabili elementi di criticità. Andiamo con ordine. L’idea di fissare una soglia, stabilita a 9 euro lordi, al di sotto della quale non è possibile pagare un’ora di lavoro, può rappresentare una misura utile ad evitare la sotto occupazione e lo sfruttamento, come avviene del resto in molti Paesi europei. Da bilanciare, però, con la doverosa salvaguardia del sistema di contrattazione collettiva. Per questo il salario minimo andrebbe applicato esclusivamente a coloro che non sono coperti dai contratti collettivi, circa il 20% degli occupati. Ne deriverebbe una maggior tutela ed anche un effetto propulsivo sui consumi. Occorre però molta cautela al fine di evitare possibili contraccolpi negativi, come l’inasprirsi del lavoro nero o anche il possibile appiattimento verso il basso dei salari esistenti. Ma l’elemento meno convincente è un altro. Dato che, come si suol dire, “il diavolo si nasconde nei dettagli”, nel disegno di legge presentato dalla senatrice M5S Catalfo ed attualmente all’esame del Senato è presente un riferimento ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative. Attraverso questa formulazione, abbinata all’introduzione del salario minimo per legge, c’è il forte rischio di dar vita a un vero e proprio monopolio costituito solo da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria, che impedirebbe ad altri soggetti, sindacali e datoriali, di contrattare accordi che garantiscano il raggiungimento delle finalità indicate dall’articolo 36 della Costituzione, ovvero la retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro. Un “cavallo di Troia” per consolidare un sistema non solo incapace di tutelare la pluralità e il pieno diritto alla libera associazione sindacale (e datoriale), ma anche destinato ad avere conseguenze negative sulla situazione economica e non solo dei lavoratori, sul territorio e nelle singole aziende. Dal nostro punto di vista, come affermiamo da tempo, fermo restando un primo livello nazionale di tutele, anche economiche, la chiave di volta potrebbe essere costituita da quello che abbiamo definito il “contratto di comunità” che salvaguardi la libertà sindacale esaltando l’elemento partecipativo, con anche il possibile coinvolgimento degli enti locali: un sistema che non avrebbe bisogno di particolari paletti percentuali per dare patenti di rappresentatività, ma che potrebbe giovarsi di incentivi fiscali e contributivi, e che avrebbe il risultato di garantire in modo più efficace la lotta fenomeno degli “working poors” attraverso un concreto miglioramento delle condizioni di lavoro.