di Mario Bozzi Sentieri
I borghesi sono morti a loro insaputa, scrive Peter Gomez, nell’articolo di apertura del mensile “Millenium”, dedicato alla morte della borghesia: tema non facile, a tratti ricorrente, spesso sottovalutato, che comunque rimane cruciale per comprendere gran parte della crisi italiana, del degrado del Paese e delle nostre classi dirigenti (non solo di quella politica). La (presunta) morte della borghesia sta forse nella sua sostanziale bulimia sociale culturale: ha assimilato il mondo proletariato ed ha vampirizzato l’aristocrazia alto borghese e dinastica, giocando sostanzialmente al ribasso (il quieto vivere, il posto fisso, il conformismo, il “presentismo”, cioè la mancanza di ampi orizzonti) ed impoverendo il suo capitale culturale e quello delle giovani generazioni. Emblematiche le storie offerte da “Millenium”, che ha fotografato una condizione oggi trasversale tra i giovani “borghesi”, laureati, professionalmente motivati, con specifiche qualificazioni ed insieme precari, sottopagati, sostanzialmente poveri. E dunque depressi nella loro realtà di “declassati” sia dal punto di vista economico che morale. Tutto questo ha anche un costo sociale – come denunciano Giovanni D’Alessio e Luigi Cannari, nel loro studio “Istruzione, reddito e ricchezza: la persistenza tra generazioni in Italia” – nella misura in cui certe posizioni vengono “tramandate” di padre/madre in figlio/figlia, con gravi ricadute sulla mobilità tra le generazioni e con un aumento della precarietà sociale tra chi non ha certi “paracaduti” familiari. Gli effetti si vedono nei dati che descrivono lo stato di salute della società italiana. Su “Millenium” li ricostruisce Linda Laura Sabbadini, che ha diretto il Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat fino a quando, nel 2016, l’allora presidente Giorgio Alleva lo ha cancellato. “Rispetto a prima della crisi, il tasso di occupazione dei 25-34enni è diminuito di quasi dieci punti mentre quello degli over 50 saliva di 14. E abbiamo 500 mila giovani adulti tra i 30 e i 34 anni che non hanno mai lavorato: rischiano di diventare degli esclusi permanenti non solo dal lavoro, ma anche dalla possibilità di costruirsi una vita”. Il risultato è che l’incidenza della povertà oggi è molto più alta tra bambini e giovani che tra gli anziani. Un milione e 200 mila minorenni fanno parte di famiglie che non sono in grado di comprare beni e servizi indispensabili per una vita accettabile. “Un bambino che vive per anni in povertà”, avverte Sabbadini, “ha molte probabilità di restare povero da grande: accumula svantaggi fin da piccolo e vede ridursi le proprie chance di mobilità sociale”. Il quadro è oggettivamente complesso e bisogna dire che la sovrabbondanza dei dati statistici e delle testimonianze, offerte da “Millenium”, aiuta solo in parte, soprattutto laddove non affronta alcuni dei nodi culturali del problema. A cominciare dalla distinzione tra borghesia e ceto medio. Giuseppe De Rita, che sul tema ci aggiorna da decenni, sostiene che la borghesia in Italia non c’è, surrogata dal ceto medio. La differenza? La borghesia ha coscienza di sé e delle sue responsabilità sociali, il ceto medio ripiega nell’egoismo. Allargando la visione si può dire che alla borghesia manchi la consapevolezza del proprio ruolo culturale, capace di informare, di dare forma, all’intera società. Per questo, oggi, forse non è morta, ma certamente rischia l’agonia. Storicamente la borghesia propriamente detta era la classe dei diritti, ma soprattutto dei doveri. Era la paladina della famiglia. Credeva nella Patria e ad essa arrivava ad immolare i propri figli, trovando così una nuova legittimità sociale e politica (dalle guerre risorgimentali al primo conflitto mondiale, dal fascismo alla Ricostruzione). Era una borghesia “etica”, in cui il culto del lavoro e dell’intrapresa si sposava con il ruolo pubblico, secondo una visione nazionale del sacrificio. Oggi, sempre più spesso, essa parla “al singolare”, in ragione di un’identità borghese che esaurisce nella sfera individuale l’essenza dell’essere moderno. Riduzionismo e particolarismo ne sono i corollari esistenziali: un riduzionismo dai forti tratti consumistici, un particolarismo economicistico ed un relativismo etico che paiono essere diventati le ragioni ultime ed essenziali del finalismo borghese, surrogato dal ceto medio. Di questa crisi occorre prendere coscienza per le sue conseguenze diffuse, laddove, nei secoli, l’ orizzonte borghese e la sua composizione sociale sono andati ben al di là delle analisi di chi identificava la borghesia come “la classe dei capitalisti moderni, che sono proprietari dei mezzi di produzione e impiegano lavoro salariato” (Marx ed Engels), comprendendo invece ceti professionali, tecnici dei servizi e della burocrazia statale, lavoratori del commercio, esponenti della cultura e quanti operano nel mondo dell’Istruzione. Perciò si può dire che una “buona” borghesia (culturalmente motivata) serva a tutti, anche per tenere vivo ed alto il confronto (non necessariamente lo scontro) sociale e culturale. I sindacalisti rivoluzionari, agli inizi del XX Secolo, lo avevano ben capito, quando chiedevano alla borghesia dell’epoca, stanca ed incerta anche allora, di uscire fuori dai suoi piccoli confini, dall’appagamento individualistico, accettando le sfide della modernità, all’interno di un’organica visione nazionale. Cambiano i tempi. Cambiano i “contesti”. In fondo però i problemi e le sfide sul campo sembrano essere sempre le stesse, a cominciare da una ridefinizione del ruolo della borghesia stessa e da una sua nuova assunzione di responsabilità sociale e politica.