Quando l’intenzione, anche buona, rischia di scontrarsi con effetti indesiderati ed imprevisti. Nel nostro Paese esiste da tempo una questione salariale. Il peso del fisco, una concorrenza giocata al ribasso, i voluti ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi e un sistema degli appalti e degli affidamenti poco trasparente hanno prodotto una generazione di lavoratori poveri con i minimi retributivi spesso compresi fra i 6 e gli 8 euro lordi all’ora. Un fenomeno che tocca anche la pubblica amministrazione, quanto meno come committente nei confronti di cooperative con pochi scrupoli. La soluzione più semplice sarebbe quella di introdurre un salario minimo orario per legge, cui ha accennato lo stesso ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e che ritroviamo in alcuni disegni di legge in Parlamento. Sennonché l’introduzione secca di un salario minimo orario porterebbe nel tempo al superamento della contrattazione collettiva con tutto il suo sistema di tutele, dalla previdenza complementare al welfare, dall’organizzazione del lavoro all’orario, passando per la malattia e le ferie. Queste cose sono state evidenziate dai sindacati come anche dalle organizzazioni datoriali durante le audizioni in corso al Senato. Un incremento del salario orario del 20-30% potrebbe avere come reazione un equivalente taglio di personale da parte delle aziende, a meno che la misura non sia accompagnata da un consistente sconto fiscale.