di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

È il segnale che ci aspettavamo già da prima e che, ci auguriamo, diventi ancora più forte: il M5s, dopo la lettera del vice premier Matteo Salvini pubblicata dal Corriere della Sera, sembrerebbe propenso a cambiare linea sul “sì” all’autorizzazione a procedere nei confronti dello stesso Salvini per il blocco della nave Diciotti. Qualcosa nell’animo grillino si è mosso a cominciare dall’On. Emilio Carelli e dal sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che hanno compreso e evidenziato come un eventuale processo sarebbe contro tutto il governo. Servirebbe qualche segnale in più e più deciso. A mio parere il Governo del Cambiamento, o ancora meglio la sua parte che malauguratamente dovesse votare “sì”, non potrà uscire facilmente indenne da un processo su decisioni peraltro già assunte. Per essere più chiari, checché ne dicano alcuni ministri grillini, non si può votare “sì” all’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, per salvare la coerenza con un passato antigarantista, e allo stesso tempo difendere in sede di processo la collegialità del Governo nell’assumere quella stessa decisione. Sarebbe più coerente andare tutti a processo. Più coerente, sì, ma non più giusto.
In questo caso il vice premier, – che non rinnega le scelte fatte, anzi continua a portarle avanti rischiando di innescare la spirale per ora felicemente cavalcata, anzi sarebbe meglio dire “motoscafizzata”, dal Pd, – non viene accusato di reati da Prima e Seconda Repubblica. In questo caso “a processo” è l’esistenza o meno di un interesse pubblico nella scelta del ministro dell’Interno di bloccare la nave Diciotti. Per quanto mi riguarda la risposta è palese e si trova già nella stessa domanda. Come sostiene lo stesso Salvini nella lettera: «La mia vicenda giudiziaria è strettamente legata all’attività di ministro dell’Interno e alla ferma volontà di mantenere gli impegni della campagna elettorale. Avevo detto che avrei contrastato l’immigrazione clandestina e i confini nazionali». E così è stato guardando ai numeri indicati dallo stesso capo degli Interni: nel 2018 ci sono stati meno morti, 23.370 sbarchi contro i 119.369 dell’anno precedente, trend che viene confermato nelle prime settimane del 2019. In gioco però non c’è soltanto il mantenimento delle promesse elettorali scritte, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, nero su bianco su un contratto, controfirmato dai due partiti che compongono il Governo del Cambiamento, ma ben di più. In questo caso, infatti, non viene contestato un comportamento del privato cittadino Matteo Salvini, ma il suo operato da ministro dell’Interno mettendo a giudizio la facoltà di quello stesso ministro, e di qualsiasi altro come lui e dopo di lui, di poter agire, nel caso specifico, per «verificare la possibilità di una equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti». Ciò è pienamente legittimo e nell’interesse del Paese, lo capirebbe persino un bambino. C’è allora da chiedersi in una parte della maggioranza quale messaggio arriverebbe all’elettorato e ai Capi di Stato di altri Paesi rispetto alla reale capacità che il Governo del Cambiamento ha o avrebbe di portare avanti e fino in fondo scelte coraggiose, talmente coraggiose da scatenare la levata di scudi, che infatti si sta scatenando contro lo sbilanciamento di equilibri e di interessi stabiliti per tanti malaugurati anni non precisamente nell’interesse della nostra amata Nazione. Come ormai sta diventando chiaro anche a coloro che il Governo del Cambiamento non hanno contribuito a far nascere con il loro voto.