Abolire il numero chiuso all’Università. Questo è uno dei tanti obiettivi del governo. Pochi giorni fa il ministro della Salute Giulia Grillo è tornata a chiederne l’abolizione per la facoltà di Medicina. Quanto deciso dal governo D’Alema nel 1999 – con la legge 264 si decise di introdurre il numero chiuso per limitare il sovraffollamento – appare ormai anacronistico. Il Paese ha bisogno di più laureati (su 100 italiani 18 sono in possesso di una laurea, la metà della media dei paesi industrializzati: è il dato più basso dopo quello del Messico, secondo l’Ocse) specie in alcuni corsi come Medicina: ogni anno mancano all’appello 700 fra anestesisti, chirurghi, ginecologi, medici di pronto soccorso e pediatri. Complessivamente il numero degli studenti che si iscrivono all’università è in crescita, dopo anni in costante calo: secondo l’ISTAT, nel 2016–2017 gli immatricolati, iscritti per la prima volta al sistema universitario, sono stati 274.339, in crescita su base annua (+5,2%) grazie all’incremento di immatricolati ai corsi di primo livello (+6%). Il problema è un altro, semmai: gli studenti non portano a termine i loro studi. Secondo l’Eurostat, quello italiano è tra i più alti tassi di abbandono, secondo solo alla Francia: nel 2016, in 523.900 hanno lasciato l’università. Il 24% dei quali lo ha fatto per trovare un’occupazione. Cosa che può risultare difficile anche ai laureati: lo scollamento tra le università e il mondo del lavoro impedisce agli studenti di apprendere le competenze richieste dalle imprese.