di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

In questi giorni la Cina è stata teatro di una polemica che ha coinvolto D&G, marchio della moda italiana famoso in tutto il mondo. Gli antefatti sono noti: la casa di abbigliamento ha realizzato una campagna pubblicitaria di dubbio gusto, con protagonista una modella cinese alle prese con del cibo italiano, e gli internauti del Celeste Impero hanno reagito sentendosi offesi ed accusando il duo di creativi di essere sessisti e razzisti. Il tutto aggravato da alcune affermazioni attribuite ad uno dei due stilisti, Stefano Gabbana, che, parrebbe, in privato si sarebbe espresso in modo poco ortodosso, criticando il modo di vivere in Cina.  Il fatto di per sé non sembrerebbe particolarmente rilevante. Da noi siamo più che abituati a simili diatribe riguardanti vip e personaggi famosi, che si risolvono, solitamente, in poche settimane, dopo qualche discussione da social o da talk show. Invece gli effetti che una questione in fondo da poco sta avendo in Cina sono piuttosto inquietanti e dovrebbero spingerci a riflettere sul modello politico ed economico vigente nel gigante asiatico con cui ormai tutto l’Occidente intrattiene rapporti strettissimi. Dapprima, infatti, la questione ha provocato l’annullamento di una sfilata-evento della casa di moda, che si sarebbe dovuta tenere a Shanghai. Successivamente la maison è stata bandita dalle piattaforme dell’e-commerce cinese, con un terzo del fatturato dell’azienda messo a repentaglio, nonostante le scuse ufficiali da parte della griffe. Ora, proviamo ad immaginare qualcosa di simile in Occidente: se, ad esempio, di fronte ai ben più gravi scandali hollywoodiani – in alcuni casi di rilevanza penale –  qualcuno avesse pensato di censurare i film delle case di produzione coinvolte. Si sarebbe, immediatamente e giustamente, gridato allo scandalo, all’attentato contro le libertà individuali e commerciali. Anche se il ministro degli Esteri cinese ha tenuto a sottolineare che la questione non deve essere considerata un caso diplomatico, il dubbio resta. Non sarebbe forse il caso che le imprese occidentali, in assenza di una più stringente presa di posizione di enti come il WTO, iniziassero a considerare anche le questioni etiche, politiche e di rispetto dei diritti nel decidere di investire così massivamente in un mercato come quello cinese? Questa resta una delle tante criticità irrisolte che hanno portato alla crisi del nostro attuale modello di globalizzazione.