di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

L’ultimo fra gli incidenti mortali sul lavoro è quello avvenuto ieri a Marina di Carrara. Vittima un operaio del settore lapideo, travolto da un blocco di marmo mentre lavorava in un deposito nei pressi del porto. L’uomo si chiamava Luca Savio, aveva 37 anni e lascia la moglie ed una figlia piccola. Un nuova morte bianca in un settore ancora particolarmente rischioso, un nuovo nome che si aggiunge all’elenco troppo lungo dei caduti sul lavoro. Non solo. In questo caso la tragica notizia è accompagnata anche da un altro dato desolante: l’uomo ha perso la vita per un lavoro a tempo determinato che doveva durare solo sei giorni. Un caso che riaccende i riflettori sul tema della sulla sicurezza sul lavoro, che va meglio garantita a tutti i lavoratori grazie al rigoroso rispetto delle norme, a controlli più capillari ed ad un’adeguata formazione professionale per prevenire incidenti soprattutto nei luoghi più a rischio. Lavorare – specie in alcuni settori – non può e non deve essere una roulette russa. Si lavora per vivere e non si vive per lavorare, tantomeno si dovrebbe operare col timore di non tornare a casa. Lavorare per vivere, come recita, non a caso, lo slogan scelto per la campagna itinerante Ugl sulla sicurezza sul lavoro. Eppure per molti lavoratori non è purtroppo così ed i rischi aumentano per i precari. C’è un nesso, infatti, fra flessibilità e sicurezza. Battersi per un’occupazione maggiormente stabile non è un vezzo da nostalgici del posto fisso. Significa voler garantire quella dignità del lavoro che non è solo stabilità economica, ma anche incolumità fisica. I lavoratori precari sono infatti maggiormente esposti a rischi, rispetto a quelli dello stesso settore ma che operano in modo stabile all’interno di un’azienda, per una serie di ragioni. Innanzitutto una minore conoscenza delle mansioni ed una minore dimestichezza con l’ambiente e con le attrezzature di lavoro. Inoltre l’instabilità dell’impiego, le richieste del datore ma anche la volontà di assicurarsi un posto fisso, generano una mole di lavoro eccessiva, con stress e di conseguenza infortuni o malattie professionali. Al lavoratore precario spettano poi, spesso, postazioni di lavoro disagevoli, per non considerare la tendenza delle imprese ad esternalizzare proprio le mansioni più gravose o pericolose. Un insieme di fattori che rende ancor più importante garantire loro un’adeguata formazione, in un sistema efficiente in grado di attuare la famosa flexicurity, ma ciò spesso non avviene così mettendo in evidenza una delle conseguenze negative della precarietà forse meno conosciute. Ci si augura che il decreto dignità, che, sebbene perfettibile, procede in una buona direzione sia il primo passo verso una visione del lavoro più attenta al “capitale umano”, inestimabile valore da mettere sempre al primo posto.