di Francesco Paolo Capone

Segretario Generale Ugl

Si sostiene nel Rapporto del Centro studi di Confindustria che «l’impennata» registrata dai contratti a termine non profila «per ora un aumento strutturale della precarietà del lavoro». Nel 2018 per il Csc l’occupazione totale salirà, ma con intensità inferiore rispetto al Pil, del +0,6% per toccare il +0,7% nel 2019.
Osservando il sistema in termini quantitativi e fermandosi alla dicotomia disoccupazione/occupazione, sarebbe difficile contestare le conclusioni del Csc e i moniti espressi oggi dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia. Quest’ultimo ha affermato che sarebbe un «un errore» intervenire sui contratti a termine, così come intende fare il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, perché «l’occupazione non si genera irrigidendo le regole».
Si può anche arrivare a comprendere il punto di vista degli industriali, sebbene quelli “grandi” per dimensione e costituzione dovrebbero essere più attrezzati, rispetto ai piccoli e medi, a stare su un mercato il quale, dalla crisi del 2008 in poi, ha costretto le aziende a navigare in un oceano di incertezza. Un’incertezza che le stesse hanno tentato, chiesto e ottenuto fosse “condivisa” anche con chi era costituzionalmente più debole, cioè le lavoratrici e i lavoratori e di conseguenza le famiglie. Negli anni, mano a mano, sono state tolte, su espressa richiesta dei Presidenti di Confindustria, senza alcuna eccezione, ai Governi di turno garanzie al lavoro e ampliata a dismisura la flessibilità, diventata precarietà – ecco l’aspetto qualitativo – ovviamente non dal punto di vista delle imprese, ma di chi uno stipendio a casa lo deve portare e con quello fare fronte a impegni molto onerosi. Nella convinzione, evidentemente ancora oggi inossidabile, che le tutele equivalessero a rigidità e che la rigidità bloccasse le assunzioni, è stato buttato senza adeguati salvagente nello stesso oceano di incertezza tutto il ceto medio e intere famiglie, che non a caso hanno fermato il mercato interno ridimensionando gli acquisti, fino a “scoprire” ieri che 1 milione e 778mila di esse si trovano in uno stato di povertà assoluta. La flessibilità non ha inciso in maniera rilevante, così come era stato predicato dai suoi sostenitori, né sul livello di occupazione ma soprattutto sulla disoccupazione, sia dei giovani sia delle donne del Sud in particolare, che resta molto alta anche a detta del Csc. L’aver disarticolato l’articolo 18 e il contratto a tempo indeterminato non ha convinto le imprese a utilizzare i contratti cosiddetti stabili. Per questo si ha oggi la sensazione di vivere in una dimensione totalmente diversa da quella osservata dal Csc, una diversità che si riflette totalmente nel voto espresso dai cittadini italiani il 4 marzo scorso e anche nelle recenti amministrative.