di Augusto Ghinelli
Responsabile Nazionale Dipartimento funzione pubblica

Viviamo nell’era della Globalizzazione ovvero, nella diffusa interazione tra i Paesi industrializzati, quelli emergenti, quelli in via di sviluppo e i Paesi ancora sottosviluppati, sia sotto il profilo economico, che sul piano sociale, culturale, tecnologico e della comunicazione.
Il processo della globalizzazione, ha causato una radicale e profonda mutazione del mercato del lavoro, sia a carattere internazionale, sia carattere nazionale. Il nostro Paese infatti, dovrà capire e analizzare quali prospettive possiede per affrontare l’immediato futuro.
Attraverso la globalizzazione, l’economie internazionali e le economie nazionali, tendono ad integrarsi sempre di più, giungendo in questo modo, alla creazione di un mercato unico mondiale. Appare comunque riduttivo, delimitare questo fenomeno nel solo ambito della sfera economica, giacché coinvolge altresì, le relazioni sociali ed umane. Infatti, si dice: “villaggio globale” per indicare che oggi il mondo è “più piccolo”, le società sono più contigue rispetto al passato e la continua informazione influenza le scelte, gli orientamenti e le decisioni assunte dai Governi, dalle istituzioni politiche, dalle amministrazioni, dai centri di potere economico, come anche, dai singoli individui.
Se da un lato, la globalizzazione sta producendo un’evoluzione delle società, dall’altro genera non pochi “effetti collaterali”, che si potranno contrastare solo attraverso una strategia di monitoraggio e controllo sui meccanismi in cui si articola.
Il Lavoro è uno dei “fattori della produzione” e coloro che lo svolgono ( La “forza-lavoro”) sono coinvolti nel processo della globalizzazione, sullo stesso piano dei capitali e delle merci. In questo però, troviamo una profonda anomalia. Per i capitali e le merci, sussiste la rapida circolazione, in particolare per i primi, che grazie all’informatizzazione, riescono a ridurre drasticamente i tempi per la loro trasmissione fisica. Meno fluida invece, è la circolazione delle persone, e segnatamente di quelle che si spostano da un contesto ad un altro, alla ricerca di lavoro. La libera circolazione delle merci e dei capitali, viene universalmente valutata come un fattore propulsivo per lo sviluppo, tanto che, si ritiene di non dover porre nessun vincolo. La sola “merce” alla quale, invece, si pongono continui ostacoli alla libertà di trasferimento, è proprio la forza- lavoro.
Un esempio fra tutti, l’accordo di libero scambio chiamato Nafta (North America Free Trade Agreement) che è entrato in vigore dal 1994, tra gli Stati Uniti, il Canada e il Messico, che prevede la piena mobilità delle merci e dei capitali, fra i tre Paesi interessati. Restano saldi però, i vincoli tra Usa e Messico, in particolare, per l’ingresso legale dei cittadini messicani in territorio statunitense. La ragione di questa “anomalia” è semplice, il lavoro non è un “fattore” come gli altri. Mentre si può interrompere o ridurre attraverso una decisione, il flusso di merci o di capitali, in funzione di contingenti esigenze, non si può fermare, ridurre o al contrario, aumentare il flusso di forza-lavoro a piacimento. La circolazione della forza lavoro è stata ormai da decenni, ampiamente regolamentata in tutti i Paesi industrializzati e in molti casi, ciò sta provocando forti tensioni sociali, poiché il flusso di persone in cerca di lavoro provenienti dai Paesi con economie arretrate, nel frattempo non si è arrestato, creando così, il crescente fenomeno delle migrazioni clandestine che, incidono sensibilmente sulla “questione lavoro”.
Uno degli aspetti più destabilizzanti per i lavoratori dell’era della globalizzazione, è la tendenza alla delocalizzazione della produzione materiale. L’assenza di vincoli alla circolazione di merci e capitali, implica la possibilità di poter trasferire le produzioni, da un Paese ad un altro, al fine di trovare il maggiore rendimento del capitale, ovvero, di maggiori profitti imprenditoriali. Fino a pochi anni addietro, erano solo le grandi multinazionali che creavano in diversi Paesi, le proprie filiali in funzione dei minori costi di produzione. Attualmente, questo processo si sta diffondendo anche alle medie aziende e alle piccole imprese, che “Delocalizzano” spostando in altre aree, singoli segmenti della catena produttiva, come addirittura, l’intero processo lavorativo, chiudendo o riducendo drasticamente la loro produzione nazionale. Questo è il risultato, che scaturisce dal forte divario tra i costi di produzione e del lavoro, in contesti Geo-economici e sociali profondamente diversi.

Nei Paesi meno sviluppati, gli oneri e le regole a carico delle industrie risultano molto inferiori, se non, addirittura inesistenti. Infatti, troviamo che i salari dei lavoratori sono decisamente più bassi, l’orario di lavoro, in genere è più lungo a causa della carenza di legislazioni a tutela di questi ultimi. Il livello di sindacalizzazione è basso o pressoché inesistente (in molti Paesi è persino vietata l’adesione ad organizzazioni sindacali). D’altra parte, il differenziale esistente su scala internazionale, in materia di tutele delle condizioni lavorative (retribuzioni, orari e ritmi di lavoro, sicurezza ecc.), incoraggia le istituzioni internazionali a “cavalcare” le discriminazioni, anziché porre al centro della loro agenda, un piano per il suo ridimensionamento. La corte dell’Aja, in varie sentenze riguardanti il Rapporto sui Diritti Globali 2008, dà facoltà agli imprenditori di applicare le normative di tutela dei lavoratori a prescindere dal Paese in cui opera effettivamente l’azienda. Da ciò discende, la possibilità per gli industriali di adottare il sistema di protezione sociale meno favorevole ai lavoratori, anche se l’azienda opera in un Paese in cui le tutele sociali sono migliori.
La delocalizzazione produttiva, è favorita anche da un altro divario: quello relativo alla imposizione fiscale a carico delle imprese. Il “villaggio globale”, sotto questo aspetto risulta altamente sperequato: mentre in gran parte delle economie sviluppate, il costo della contribuzione fiscale (oneri tributari, contributi previdenziali e assistenziali ai lavoratori ecc.) è consistente, incidendo in modo significativo sul totale dei costi di produzione e, di conseguenza, sul prezzo finale dei prodotti o dei servizi realizzati, in molti Paesi con economia arretrata o “emergente” questo è assai più contenuto e, non di rado, mantenuto volutamente basso al fine di attrarre capitali dall’estero (si pensi ai cosiddetti “paradisi fiscali” quali Isole Cayman, Bermuda, Liechtenstein, Monaco, San Marino e tanti altri).
L’effetto convergente di questi due elementi; basso costo del lavoro e bassi oneri fiscali, genera per le imprese la scelta di chiudere o ridimensionare le produzioni nazionali e aprire linee produttive all’estero a scapito dell’occupazione interna. Delocalizzare la produzione, per i lavoratori significa la perdita del loro impiego e la conseguente ricerca di altra occupazione. Per molti di loro inoltre, raggiunta una certa età, la ricerca di una nuova occupazione risulta molto difficile, tanto da essere sospinti fuori dal mercato e ridotti a “non forza lavoro”. L’insieme di queste persone, pur avendo la necessità di lavorare, non trovano adeguata occupazione, andando così a rendere ancora più drammatica la crisi economica in atto da qualche anno nel nostro Paese.
Un altro aspetto del processo di delocalizzazione è la pressione esercitata sulle condizioni di lavoro dei lavoratori. La possibilità di spostare all’estero intere linee di produzione può, essere usata come una vera e propria minaccia per ottenere, da parte dell’impresa, un alleggerimento dei propri costi di produzione (ad esempio ottenendo l’assenso dei sindacati a turni di lavoro più pesanti, a salari più contenuti, o anche lucrando da parte dello Stato o delle Pubbliche Amministrazioni, incentivi alla produzione, alla riduzione di imposte ecc.).
Un ulteriore rischio per la tutela dei lavoratori, deriva dagli orientamenti del sistema politico, che potrebbero favorire le imprese che minaccino di delocalizzare i loro impianti. Alla tendenza di delocalizzare, si contrappone la necessità di mantenere un livello alto di produttività del lavoro e del capitale, necessità che talvolta, è scarsamente garantita in altri Paesi industrialmente e tecnologicamente poco sviluppati. Ma la “globalizzazione” si sta muovendo anche in questa direzione, favorendo il miglioramento della preparazione professionale e l’accesso alle nuove tecnologie, così oggi, è meno a rischio il risultato qualitativo di produrre in Cina, in Romania o nelle Filippine, rispetto al passato e in confronto alla qualità ottenibile sul proprio territorio.
Altro aspetto del mondo globalizzato, è che sta determinando una crescente frammentazione, sia per quanto concerne la dimensione delle imprese, sia allo specifico riferimento del mercato del lavoro. per quanto concerne alla dimensione delle imprese, c’è una divaricazione fra il progressivo sviluppo ed estensione della grande multinazionale e il proliferare delle medie e piccole aziende, localizzate in prevalenza nei Paesi meno sviluppati. La casa madre finisce per essere sempre più centro operativo, costituita da pochi dirigenti che si occupano in prevalenza di progettazione e marketing, mentre la produzione materiale è affidata alle piccole e medie aziende localizzate nelle aree dove minori sono i costi di produzione.
Pochi giganti produttivi dominano i mercati, tante piccole imprese lavorano per loro nelle aree del sottosviluppo con economia emergente e un numero sterminato di lavoratori opera in condizioni lavorative, peggiori di quelle esistenti nei Paesi industrializzati (Si pensi allo sfruttamento del lavoro minorile). Alla frammentazione dei comparti produttivi, è associata quella del mercato del lavoro. Inoltre, nel mondo globalizzato, si sono affermati due principi, quello della flessibilità e quello della precarizzazione, al punto tale, di diventare un manifesto neo-liberista.
Per quanto concerne la flessibilità, questa si riferisce alla mobilità, come necessità del lavoratore per non rimanere ancorato al proprio posto per tutta la durata lavorativa, ma di potersi convertire alle diverse esigenze del mercato (cambi di reparto, di azienda, di attività, ecc.), come anche, adattarsi a un più un ampio ventaglio di forme contrattuali e aderire alle nuove necessità, imposte dalla produzione mondializzata. La conseguenza di questo sistema, è la precarizzazione, che in assenza di adeguate tutele, compensa la forzata flessibilità imposta dal nuovo mercato mondiale del lavoro.
Statisticamente è provato, che dal 1980 il numero e la percentuale dei dipendenti a tempo pieno e con contratti a tempo indeterminato, nei Paesi sviluppati è costantemente diminuito, mentre sono notevolmente aumentati i contratti a tempo determinato e, in particolare nel nostro Paese, quelli a progetto.
In poche parole, il mercato del lavoro è diventato sempre più flessibile, le forme di lavoro si sono moltiplicate divenendo sempre più precarie e prive di qualsiasi garanzia di continuità ed inadeguate per costruirvi attorno, un dignitoso progetto di vita. Una grave situazione, che si è generalizzata in vari Paesi, dove ha comportato lo stravolgimento dell’impalcatura socio/economica con la riduzione della quota salari, rispetto al totale della ricchezza prodotta, associata al calo dell’occupazione stabile (Negli ultimi tempi, anche alla diminuzione dell’occupazione tout court).
Il fenomeno delle migrazioni internazionali, è un altro aspetto della globalizzazione, con effetti positivi e negativi. Di positivo è, che nei Paesi di partenza si abbassa il livello di disoccupazione, mentre di negativo, è che le migrazioni dei lavoratori qualificati, vanno a privare il territorio di un vero e proprio capitale umano e la perpetuazione della loro condizione di sottosviluppo.
Relativamente ai Paesi destinatari dei flussi migratori, quando si parla di lavoratori assunti con regolare contratto di lavoro, i benefici sono maggiori dei costi da sostenere. I migranti in genere, vanno a ricoprire quei posti di lavoro, considerati particolarmente faticosi o pericolosi. Il livello di produttività di questi lavoratori, è in genere superiore a quello dei lavoratori locali, in quanto hanno estremo bisogno di mantenere l’attività al massimo, per inviare parte del proprio reddito alle famiglie. La spesa sociale a favore dei migranti è, di massima inferiore agli oneri pagati dai lavoratori stranieri, in quanto potendo rientrare nei Paesi di origine, non usufruiscono di un trattamento pensionistico, per il quale in parte, hanno contribuito. La situazione è del tutto diversa quando gli stranieri risultano in posizione di irregolari e senza un contratto di lavoro e svolgendo un’attività lavorativa in nero. L’immigrato irregolare, viene considerato clandestino e per questo, è costretto ad accettare qualsiasi tipo di occupazione, anche se sottopagata e con condizioni di sfruttamento. Mediante il lavoro nero, lo Stato non percepisce oneri contributivi, si tratta di una profonda e radicata evasione fiscale, generata proprio, dal cosiddetto sommerso. Il lavoro non dichiarato e mediamente retribuito in misura minore dell’occupazione regolare, produce un generale effetto depressivo sui livelli salariali. I lavoratori del sommerso, sottopagati e sfruttati pur se non intenzionalmente, andrebbero a fare concorrenza sleale ai lavoratori regolari, costringendo quest’ultimi ad accettare spesso condizioni di lavoro più sfavorevoli, pur di poter lavorare. Il nostro Paese in particolare, per garantire a tutti; l’istruzione gratuita, l’assistenza medica di base, la pensione e l’indennità di disoccupazione, ecc. trova sempre più difficoltà, perché queste espressioni di democrazia e socialità, mal si sposano con le leggi del mercato e con i capitali che si riversano altrove. La disoccupazione, la povertà assoluta e la povertà relativa, che sotto certi aspetti è ancora più pericolosa, oramai stanno dilagando in modo preoccupante, ma ancora di più, è la mancanza reale di un serio progetto che possa in qualche modo arginare il fenomeno. Nasce la necessità, che la globalizzazione cambi orientamento e diventi inclusiva e produca maggiore prosperità economica e sociale per tutti. Bisogna riequilibrare tutto il sistema, tramite politiche pubbliche innovative e compromessi politici intelligenti, che favoriscano le riforme strutturali. I Paesi aderenti, devono favorire una maggiore omogeneizzazione delle condizioni internazionali del lavoro, interventi più stringenti in materia di ammortizzatori sociali e di politiche attive del lavoro, tali da realizzare un efficace welfare to work, associati a politiche ambientali ecosostenibili e a un maggior impegno nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale.
Solo così, si potrà favorire uno sviluppo non generatore di impoverimento e distruzione del capitale umano.