di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Il sindacato dei metalmeccanici tedeschi Ig Metall ha siglato un accordo storico che segnerà un punto di svolta nel sistema di relazioni industriali in Germania e che offre spunti di riflessione anche per noi italiani. Dopo una trattativa serrata fra datori di lavoro e rappresentanza sindacale, fatta di scioperi e negoziati, si è giunti ad un accordo, per il momento esclusivamente rivolto all’area del Baden-Württemberg in cui si trovano aziende importanti, ma che probabilmente sarà esteso a tutto il settore. Non è stata solo raggiunta un’intesa sugli aumenti salariali, ottenendo un incremento del 4,3%, ma, ed è questa la novità più interessante, è stata ideata una rimodulazione flessibile dell’orario di lavoro che consente ai dipendenti che ne facciano richiesta, per esigenze familiari di assistenza a figli o congiunti bisognosi di cure, di ridurre l’orario lavorativo dalle attuali 35 a 28 ore settimanali, per un tempo massimo di due anni, conservando il diritto alla piena occupazione allo scadere del periodo part-time, con una riduzione in busta paga – il sindacato non è riuscito ad ottenere come aveva richiesto la parità di stipendio – compensata però da un bonus di 8 giorni in più di ferie. Non solo, altri lavoratori dell’azienda, bisognosi non di tempo libero ma di maggiori entrate, potranno invece decidere su base volontaria di aumentare il proprio orario portandolo a 40 ore e realizzando così una sorta di compensazione complessiva. Si tratta di un compromesso, raggiunto dopo una dura lotta e che, come sempre in questi casi, rappresenta un punto d’incontro fa le esigenze della parte datoriale e quelle dei lavoratori, che avevano inizialmente richiesto un aumento dello stipendio del 6%. Un compromesso che, comunque, permetterà grazie al maggiore potere d’acquisto dei metalmeccanici di dare una nuova spinta ai consumi interni e che dà vita ad un modello interessante di flessibilità non precaria e più vicina alle esigenze dei lavoratori. Un modello che potrebbe essere esteso ad altre aree del Paese e replicato in altri settori. Questa vicenda ci insegna molte cose. Innanzitutto ci chiarisce a cosa servono il sindacato e la contrattazione, in Italia messi troppo spesso in discussione, dimostrando che non è sufficiente stabilire «salari minimi» per avere buone ed efficienti relazioni industriali e che i contratti servono anche a realizzare modelli organizzativi più al passo coi tempi ed in grado di trovare un punto di incontro fra tutte le esigenze, datoriali e dei lavoratori. In secondo luogo ci mostra che la flessibilità può avere molte forme e che non sempre deve tradursi in precariato, potendo invece anche rappresentare, se adeguatamente regolamentata in sede di contrattazione, una modalità di lavoro meno rigida e più conforme alle esigenze di ognuno, ma sicura e tutelata.