di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Siamo un popolo di partigiani. Nel senso che siamo un popolo che ama accapigliarsi e scegliere una parte contro l’altra. Lo siamo da sempre, da quando ancora non eravamo un popolo, ma, a mala pena, una entità geografica. Senza tornare alla Roma repubblica e poi imperiale, siamo il popolo dei guelfi e dei ghibellini, dei comuni e dell’imperatore straniero, dei fascisti e degli antifascisti, dei repubblicani e dei monarchici, di Peppone e Don Camillo. Siamo il popolo che stasera si dividerà davanti alla televisione fra favorevoli e contrari, ma che stasera, inevitabilmente, almeno qualche minuto si fermerà a guardare il Festival di Sanremo, perché domani sui mezzi di trasporto, nei bar, negli uffici come nelle fabbriche o nelle scuole sarà l’argomento di dibattito. Altro che le elezioni, la politica o l’economia. Questo perché, come dice lo slogan, «Sanremo è Sanremo». Ed allora, senza avere ascoltato le canzoni e avendo appena scorso, per curiosità, la lista dei partecipanti, formata da qualche gloria del passato e da tanti giovani di buone speranze, una riflessione si impone, poiché, volenti o nolenti, le canzoni sono lo specchio della nostra società. Senza voler fare trattati, ma Sanremo ha sempre rappresentato la casa dell’amore, tre o quattro parole semplici, legate ai sentimenti, una casa nella quale i cantautori degli anni che furono si sono quasi sempre trovati a disagio. Il messaggio impegnato, quello di rottura degli schemi, non passava per la ridente località ligure, ma per altri canali, a volte anche di nicchia, perché funzionava così. Non era possibile la contaminazione, soprattutto a partire dagli anni ’70, perché quel palcoscenico era enorme per il cantautore con la chitarra e la voce roca per il vino e le sigarette. I tempi, però, cambiano, la musica si disimpegna, anche se non mancano le denunce civili. L’elettronica prende il posto dell’acustica, uniformando spesso il suono e rendendo ogni canzone troppo simile alle altre, al punto che le vere star non sono più i cantanti, ma i presentatori: il Festival di Fabio Fazio, quello di Paolo Bonolis, i tanti di Pippo Baudo e Mike Buongiorno e via discorrendo fino ad arrivare a Claudio Baglioni. È la metafora della nostra società. I lavoratori (i cantanti) passano, qualcuno più fortunato brilla per anni ed anni, altri si incagliano alle prime difficoltà; tutti, dopo aver studiato giorno e notte, si ritrovano sorpassati a destra da chi sa inventare il ritornello giusto, senza sapere mettere una nota accanto all’altra. In ogni caso, non sono loro a raccogliere i frutti del successo o meno dell’evento; possono anche scrivere o interpretare la migliore canzone possibile, ma il successo si misura in termine di audience e a vincere o a perdere sono i conduttori, con i loro cache a diversi zeri. Succede a Sanremo, succede nelle aziende, dove i lavoratori non partecipano alle sorti dell’impresa, salvo poi pagarne pesantemente le conseguenze, mentre qualche amministratore delegato gira con auto da centinaia di migliaia di euro, succede nella politica, dove le scelte dei leader nazionali ricadono sui militanti (questo sì un termine molto anni ’70) sul territorio. Prepariamoci, quindi, a trovare il Festival di Sanremo nelle aperture dei giornali e dei telegiornali, accantonando per qualche ora i tanti, troppi problemi che affliggono il nostro Paese, sperando che a vincere sia il migliore, cosa che, purtroppo, accade sempre più di rado.