La legislatura si chiude con la crescita dei contratti a tempo determinato e con l’esplosione di due fenomeni – la disoccupazione giovanile e i neet – sui quali la crisi ha indubbiamente inciso, pur non essendo la sola causa scatenante. Andate come sono andate le elezioni del 2013, diventa premier Enrico Letta, il quale eredita dal governo Monti due riforme, quella della previdenza, che di fatto blocca il turn over fra vecchie e nuove generazioni, e l’altra del lavoro, la quale tenta di scoraggiare il lavoro a tempo determinato esclusivamente sotto il profilo contributivo, attraverso una aliquota aggiuntiva, ed intanto agevola il licenziamento delle persone. Sulla base di questo scenario, l’approccio di Letta è leggero, attraverso l’iniezione di risorse per favorire l’occupazione giovanile. La sua esperienza di governo, però, si conclude molto prematuramente e dal maquillage si passa alla mannaia di Matteo Renzi, il quale, prima promette piani industriali e poi rivoluziona il diritto del lavoro, andando ben oltre la Fornero, facendo credere che il contratto a tutele crescenti sia realmente a tempo indeterminato, mentre non è così, visto che i licenziamenti disciplinari ed economici ora sono possibili senza particolari vincoli, e immettendo bonus contributivi costosi, ma poco efficaci. Paolo Gentiloni, volente o nolente, si ritrova a gestire la piatto preparato da altri e così, dopo aver fatto saltare il referendum sul lavoro accessorio, fa approvare una legge di bilancio che prevede delle agevolazioni per chi assume giovani a tempo indeterminato o disoccupati del Sud, sperando che intanto il tempo migliori.