di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

La tutela del lavoro si conferma, come prevedibile, argomento poco considerato nella legge di stabilità 2018. Dalla manovra, al vaglio della Commissione Bilancio della Camera e che stasera dovrebbe approdare in Aula, sono stati infatti cancellati gli emendamenti che avrebbero potuto rappresentare, se non un mutamento radicale, quantomeno il segnale di un cambio di rotta rispetto alle politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto in questi anni dalla maggioranza di Governo e dal Pd. Il segnale non c’è stato. Anzi, c’è stata un’ulteriore conferma della volontà di proseguire sulla strada infausta rappresentata dal Jobs Act. Gli emendamenti in questione erano due, entrambi proposti, diffusi e poi cassati in un balletto tutto interno alla sinistra. Il primo voleva una riduzione della durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi, il secondo portava da 4 ad 8 le mensilità minime da pagare al lavoratore in caso di licenziamento senza giusta. Entrambi naufragati. La motivazione: «non è stato trovato l’accordo politico». Una vicenda sconfortante anche perché è ormai chiaro, dati alla mano, che la parziale crescita statistica dell’occupazione si spiega solo in due modi: da un lato la parcellizzazione del lavoro, che fa considerare «occupati» anche coloro che svolgono mansioni estremamente precarie e saltuarie, dall’altro la trappola pensionistica che fa rimanere tra le fila degli occupati i lavoratori che tempo fa avrebbero potuto e dovuto essere in pensione. L’amara realtà, che tutti gli Italiani conoscono bene, è quella di un «mercato» del lavoro asfittico e di una povertà sempre più diffusa. Quanti avevano sperato in una parziale revisione delle ricette sbagliate introdotte con il Jobs Act oggi devono fare i conti con una sinistra ormai incapace di difendere i diritti dei lavoratori ed anzi loro principale avversaria. Non certo un fulmine a ciel sereno, ma solo l’ultima conferma di una tendenza che va avanti da anni. Allo stesso modo risulta particolarmente deludente la riduzione della web tax: l’imposta sulle transazioni digitali è infatti stata tagliata dal 6%, inizialmente stabilito dal Senato, al 3% e non è stata estesa all’e-commerce. Anche in questo caso un cambiamento della normativa avrebbe potuto rappresentare – oltre che una più equa partecipazione al fisco e una concorrenza più leale con le attività tradizionali – anche una vittoria per il mondo del lavoro, ricordando la recente vicenda Amazon. La multinazionale del commercio digitale, infatti, a causa delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori si è recentemente trovata coinvolta in un imponente sciopero e ancora non ha offerto garanzie reali circa la volontà di migliorare la propria organizzazione interna. Ma il mondo del lavoro per il Governo è sacrificabile di fronte ad interessi considerati, a quanto pare, più importanti.