di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Viviamo tempi oscuri. Così, proprio mentre alcuni grandi della Silicon valley recitano il loro mea culpa per il mostro che hanno generato e per non aver saputo introdurre i dovuti anticorpi nell’eccesso di esposizione mediatica sui social, un albero di Natale, addobbato alla bene e meglio nella Capitale, assurge a ruolo di protagonista assoluto. Parliamo della storia di Spelacchio, l’abete rosso che avrebbe dovuto far bella mostra di sé a piazza Venezia, davanti all’altare della Patria, nel pieno centro di Roma. Una vicenda paradigmatica che si presta ad una serie di osservazioni sullo stato di salute istituzionale del nostro Paese, di Roma stessa e sulla divaricazione esistente fra questioni reali ed aspetti più marginali, in particolare nei social. Appurato che ogni albero di Natale naturale, o comunque la stragrande maggioranza di essi, presente nelle nostre piazze è destinato ad una rapida fine, poiché espiantato senza radici (l’espianto con radici costerebbe troppo, visto che servirebbe un macchinario disponibile nella sola Germania, oltre ad avere costi di trasporto decisamente più alti), la cosa che sgomenta è la polemica fra la piccola comunità della val di Fiemme, da dove proviene Spelacchio, e l’amministrazione capitolina. Davanti al solito rimpallo di responsabilità, ci chiediamo se mai in questo Paese qualcuno si prenderà le proprie responsabilità. Per una volta, qualcuno a dire ai cittadini «scusateci è stata colpa nostra»; sarebbe un auspicabile salto di qualità nei rapporti fra le istituzioni e con gli elettori contribuenti. Spelacchio è, però, anche l’immagine plastica del degrado della Capitale. Piazza Venezia è il centro della città, è il punto di raccordo fra la Roma antica e quella moderna. Ogni angolo ci racconta la storia d’Italia. Ebbene, che Nazione è una Nazione che non riesce neanche a tenere in ordine il proprio biglietto da visita? Oggi tocca ad un albero di Natale, domani sarà la volta di una strada o di una scuola insudiciate, sempre comunque un degrado che si tocca con mano. Ed allora, se proprio dobbiamo indignarci sui social, non sarebbe meglio indignarsi per cose più concrete, per l’azienda che sfrutta i dipendenti (vero, Amazon?), per i diritti che si indeboliscono, per gli ospedali che non funzionano, per gli anziani soli o per i giovani senza lavoro?