di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Decimale più, decimale meno, tutti i sondaggi sembrano concordare su di un punto: il centrodestra unito avrebbe la maggioranza relativa delle preferenze degli elettori, almeno di coloro che hanno già un’idea chiara su chi votare. Peraltro, è lo stesso Matteo Renzi a riconoscerlo. In una intervista al Corriere della Sera, l’ex premier, dopo aver premesso che «gli altri sono in campagna elettorale mentre noi dobbiamo sostenere la responsabilità del governo e passiamo il tempo a litigare all’interno», continua: «Era ovvio che per il Pd fosse meglio votare a giugno o al massimo a settembre. Chi allora sosteneva questa tesi è stato accusato di irresponsabilità, ma non votando si è fatto un clamoroso assist a Berlusconi e Grillo». Per l’ex presidente del consiglio dei ministri, quindi, il sostegno «responsabile» all’attuale inquilino di Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni, starebbe costando al Partito democratico la vittoria alle elezioni, così come le liti interne alla formazione politica che guida starebbero soffiando sulle vele delle opposizioni, di centrodestra o del Movimento cinque stelle. Tesi semplicistica che lascia perplessi, perché priva di qualsiasi autocritica su quel che è stato fatto o non è stato fatto in questi anni e che, soprattutto, non sembra considerare un aspetto centrale, quello della crescita dell’astensionismo, frutto del progressivo scollamento fra Paese reale e mondo della politica, fra chi si barcamena e il palazzo del potere. Il centrodestra potrà anche vincere le prossime elezioni, ma non può illudersi che le medesime siano una passeggiata di salute. È la parabola stessa di Renzi ad insegnarlo. Da poco premier, portò il suo Partito democratico a superare la soglia del 40 percento nelle elezioni europee. Un risultato con pochi precedenti, ottenuto però con una bassa affluenza alle urne, quasi dieci punti in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2009. Renzi, invece di provare a capire il perché di tanta disaffezione, ha interpretato il voto come una sorta di assegno in bianco; si è creduto autosufficiente, andando a sbattere contro il muro del No al referendum sulla riforma costituzionale del 4 dicembre 2016. È vero che la nuova legge elettorale più che lo spirito di coalizione, sempre favorire la competizione fra alleati, veri o presunti, ma chi oggi si candida a guidare il Paese non può non tener conto degli insegnamenti del recente passato. Il centrodestra – ma il discorso vale pure per gli altri schieramenti -, se vuole vincere, deve recuperare il contatto con il Paese reale e con i problemi veri e quotidiani delle persone. E quindi, si tratta di dare delle risposte convincenti e praticabili sul lavoro, sull’assistenza socio-sanitaria, sulla casa, sulla qualità della vita di giovani ed anziani, sulle pensioni, sul Mezzogiorno e sulle aree sottoutilizzate del Centro e del Nord.