di Caterina Mangia

Italiani popolo di “squalificati”.
E’ un Paese sfiduciato, diviso, non meritocratico, in cui i processi formativi e le dinamiche occupazionali sono reciprocamente “scollate”, quello che emerge incrociando i dati diffusi da Istat, nel rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES), e dal rapporto Ocse sulle competenze.
Un Paese di persone sovra-qualificate rispetto al lavoro che fanno, o che compiono un percorso di studi per poi trovare un’occupazione in tutt’altro contesto, senza poter mettere a frutto quanto appreso: in Italia «i titoli di studio e le qualifiche danno un’indicazione molto debole delle reali competenze e abilità degli studenti», afferma l’Ocse, secondo cui chi ha una formazione che spesso è troppo teorica «rimane intrappolato in un mercato del lavoro che lo colloca in posti di scarsa qualità», perché «l’incertezza sulle reali competenze dei laureati contribuisce a rendere il processo di selezione e assunzione particolarmente difficile». E’ il 21% degli italiani, una larga fetta della popolazione, ad essere sovra-qualificato rispetto alle proprie mansioni, mentre il 35% è occupato in contesti che non hanno a che fare con il percorso formativo compiuto: tra il mercato lavoro e quello dell’istruzione intercorre un dialogo tra “sordi”.
Non sorprende, dunque, che chi è in cerca di lavoro invece di puntare su titoli e competenze faccia ricorso al vecchio e indimenticato e non sempre meritocratico “passaparola”: secondo l’Ocse in Italia le offerte di lavoro restano «nascoste» a chi non sia fornito di «un buon network personale o professionale»; «le reti familiari e di conoscenze personali vengono spesso preferite ai canali di reclutamento pubblici», con la conseguenza che vengono premiati «coloro che hanno un buon network piuttosto che i candidati con le migliori competenze».
Non sorprende neanche che molti laureati espatrino con un biglietto di sola andata: secondo il BES dell’Istat, per tre laureati che valicano le Alpi è soltanto uno a tornare.
«Nel 2016 – si legge nel rapporto – circa 16mila laureati italiani tra i 25 e i 39 anni hanno lasciato il Paese e poco più di 5mila sono rientrati, confermando il trend negativo del tasso di migratori età dei giovani laureati», e tutto ciò è legato al fatto che «la capacità dell’Italia di favorire prospettive di occupazione altamente qualificata per i laureati italiani continua a mostrare  segnali decisamente negativi». Il ritratto generale, rileva Istat, è quello di un Paese chiuso in se stesso: la fiducia negli altri si mantiene «piuttosto bassa», con «solo una persona su cinque» che ritiene che la maggior parte della gente ne sia degna. Peggio ancora per quanto riguarda la distanza dalle Istituzioni, che per Istat «si coglie nella quota di quanti attribuiscono un voto pari a zero: per i partiti politici si tratta del 36,2%, per il Parlamento del 22,2% e per il sistema giudiziario del 17,1%».
Arriva però una consolazione: siamo i secondi in Ue in quanto a longevità, solo la Spagna fa meglio di noi.