di Nazzareno Mollicone
Responsabile nazionale Ufficio Questioni previdenziali dell’Ugl

Mercoledì 25 ottobre la Corte Costituzionale, nel respingere la fondatezza del ricorso presentato da decine di pensionati avverso il decreto n. 65 del 2015 del governo Renzi che aveva stabilito l’erogazione dell’adeguamento annuo delle pensioni al costo della vita (stabilito dalle norme esistenti) solo fino all’importo di 1.450 euro lordi mensili, ha emesso un comunicato in cui afferma di “aver ritenuto che quel decreto legge realizzi un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”. Bisognerà leggere le motivazioni della sentenza per comprendere il significato di questa affermazione nel contesto della decisione.
Se invece fosse presa alla lettera come principio generale, diventa assai pericolosa perché significherebbe che secondo questo principio lo Stato possa adempiere alle erogazioni economiche stabilite dalle leggi solo se ne ha la disponibilità finanziaria!
Saltano così tutti i principi dello Stato di diritto, e lo Stato – obbligato nei confronti dei cittadini come parte contraente – stabilirebbe quello che il codice civile definisce “patto leonino”, e lo vieta.
Per quanto riguarda poi il merito della questione, dobbiamo sfatare la tesi – abilmente diffusa dai media – che il divieto dell’adeguamento si applichi alle pensioni “ricche” e quindi sarebbe moralmente giustificato. Non è così, ed invece è vero proprio il contrario. La stragrande maggioranza delle pensioni colpite comprende importi che non superano le 3.500 euro lorde (su cui si applica, è bene ricordarlo, un prelievo fiscale medio del 23%): ma quel valore non è stato determinato da abusi perché si riferisce a persone che hanno avuto una lunga anzianità contributiva regolare (almeno 35 anni), una importante qualificazione professionale, un ruolo dirigenziale nell’attività lavorativa. Conseguentemente, anche i contributi a suo tempo versati erano elevati e sottoposti, essi come le retribuzioni, all’adeguamento al costo della vita.
Si sarebbe certamente posto, se accolto il ricorso, il problema dell’erogazione finanziaria. Però la Corte Costituzionale poteva lasciare aperta al Governo la possibilità di adempiere all’obbligazione in modo dilazionato; ovvero poteva anche stabilire di annullare la restituzione delle somme non versate negli anni precedenti proprio a causa della situazione finanziaria (infatti l’abolizione stabilita dal governo Monti era stata definita temporanea) ma imporre il ripristino dell’adeguamento a partire dal prossimo anno.
Insomma, ancora una volta sono le persone che hanno compiuto una vita lavorativa lunga, operosa e produttiva ad essere penalizzate. Il che però fa sorgere un interrogativo, soprattutto alle attuali generazioni di lavoratori: a che vale pretendere di farsi versare dal datore di lavoro i relativi contributi validi per il calcolo della pensione, se poi un qualsiasi governo del futuro ha la possibilità di stabilire secondo le sue esigenze l’importo da erogare? In tal modo si può alimentare la crescita del lavoro nero: un lavoratore, una volta raggiunti gli anni di contribuzione minima utili per la pensione (tanto c’è già chi dice che quell’importo possa essere di 1.000 euro mensili) passa a lavorare in nero destinando l’importo dei contributi non versati a fondi privati gestiti dalle Compagnie di Assicurazione.
E’ questo che si vuole? E i magistrati della Corte non si sono accorti di questo potenziale pericolo derivante dalla loro sentenza e – soprattutto – dalla motivazione espressa? Sono queste le perplessità e gli interrogativi che sorgono a seguito di questa sentenza.