di Fiovo Bitti 

Segretario Confederale

Diminuiscono di numero, ma aumentano negli addetti. È questo in sintesi il contenuto del rapporto Istat sulle partecipate pubbliche nel 2015, un tema sul quale rimane forte l’attenzione del decisore politico e dello stesso personale dipendente, sempre in bilico fra rilancio o soppressione dell’ente. Le società partecipate dalla pubblica amministrazione nascono negli anni ’90 per ripulire i bilanci degli enti locali e, successivamente, per dotare le amministrazioni centrali e periferiche degli strumenti tecnici per far fronte alle esigenze produttive e sociali del Paese. Messo in moto il meccanismo, la platea si è via via estesa ad ambiti che in origine non erano stati previsti e, come sovente accade, cattiva e buona amministrazione si sono incrociate, dando vita a strutture virtuose e ad altre oggettivamente inutili. Dal monitoraggio effettuato dall’Istat emerge un quadro complesso, da trattare con estrema attenzione. Le unità economiche partecipate sono 9.655 di cui 6.859 attive, pari al 71% del totale. Nelle partecipate attive è occupano il 96,2% (in valori assoluti, si tratta di 848.707 dipendenti) del totale degli addetti, valutato in 882.012 unità. Analizzando i numeri, la prima preoccupazione è quindi relativa al futuro degli oltre 33mila addetti impiegati nelle società partecipate non attive, i quali, a norma di legge, potrebbero a breve trovarsi nella scomoda posizione di essere considerati esuberi, avendo peraltro prospettive occupazionali molto labili. Destino segnato, invece, per le imprese a partecipazione pubblica senza addetti: sono 1.837 (il 26,8% del totale), le quali andrebbero poste in liquidazione ai sensi della normativa approvata nell’ambito della cosiddetta riforma Madia.