A ognuno il suo ruolo, anche se il presidente dell’Inps, Tito Boeri, sembra non volerci proprio stare. Alla Relazione annuale si è parlato proprio di tutto, di troppo forse, anche di questioni che non competono propriamente al presidente, come il ruolo dei sindacati e la contrattazione. Non solo, è l’uomo solo al comando dell’Inps, che prende decisioni in totale autonomia senza tener conto del parere dai Civ.

Proprio lui detta le ricette al Paese. Secondo Boeri, infatti, è arrivato il momento per l’introduzione del salario minimo nel nostro ordinamento. “Avremmo il duplice vantaggio – dice – di favorire il decentramento della contrattazione e di offrire uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente nucleo di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione”. Boeri afferma che “le premesse ci sono” ricordando che il nuovo contratto di prestazione occasionale fissa una retribuzione minima oraria”.

E poi ancora sul JobsAct, ne indica alcune sue lacune ma elegia la riforma nel suo complesso: “quello che il contratto a tutele crescenti sembra avere fatto – ha spiegato – è rimuovere il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti (ex art 18 dello Statuto dei lavoratori). I nostri studi, nell’ambito del programma VisitInps Scholars dimostrano – ha aggiunto il presidente Inps – che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8mila al mese di fine 2014, siamo passati alle 12mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti”. Boeri ribadisce la necessità di non bloccare gli automatismi per l’accesso all’età pensionabile legati alle aspettative di vita. “Bloccare l’adeguamento dell’età pensionabile agli andamenti demografici non è affatto una misura a favore dei giovani – rimarca – scarica sui nostri figli e sui figli dei nostri figli i costi di questo mancato adeguamento”.

Allo stato delle cose, forse il presidente dovrebbe prima guardare in casa sua visto che il risultato economico di esercizio dell’Inps nel 2016 è stato negativo per 6,046 e che, come ricetta, indica l’apertura delle frontiere per evitare la perdita di 38 miliardi in 20 anni per il sistema di protezione sociale. Una cosa è certa, a ognuno il suo ruolo. Ecco perché una riforma della “governance” dell’Istituto è necessaria davanti ad una gestione sempre più monocratica che, peraltro, interviene anche su temi che non sono di propria competenza.

Oltre alle chiacchiere e a proposte un po’ vane, ci sono invece i dati su cui riflettere veramente: in Italia sono ben 5,8 milioni i pensionati italiani che, nel 2016, hanno percepito un reddito da pensione inferiore a 1.000 euro al mese. Anche se, secondo l’Inps, si tratta di un calo dello 0,5% rispetto al 2015, i numeri sono sempre da capogiro, soprattutto se si guarda alla situazione femminile: le donne che percepiscono meno di mille euro al mese sul totale delle pensionate è del 46,8%, mentre tra gli uomini siamo al 27,1%. Nel dettaglio, secondo i dati diffusi durante la Relazione annuale, al 31 dicembre 2016, sono 1,68 milioni quelli che percepiscono un assegno sotto i 500 euro al mese, il 10,8% del totale, e 4,15 milioni quelli che si fermano a 999 euro mese, il 26,7%. Il 21,8% invece, circa 3,38 milioni di pensionati non superano quota 1.500 mentre il 17,9%, circa 2,78 milioni, percepiscono assegni fino a 1999 euro al mese. Sono invece il 10,6%, circa 1,6 milioni, quelli che possono godere di una pensione poco sotto i 2.500 euro mentre a percepire assegni di poco meno di 3000 euro sono il 5,4% del totale dei pensionati, 845mila persone. Il 6,8% infine, poco più di 1 milione di pensionati, riceve una pensione oltre i 3 mila euro al mese.