di Barbara Faccenda

Il coinvolgimento di foreign fighters che tornano nei loro paesi di origine in alcuni attacchi è un inflessibile promemoria della potenziale minaccia che questo tipo di individui pongono.

Ci sono tre elementi che rendono il caso dei foreign fighters di ritorno così impegnativo e la portata del problema così incerta.

Prima di tutto e, particolarmente per i firmatari dell’accordo di Schengen, il rischio che i foreignfighters ritornino a casa senza essere individuati. Secondo, quando quelli che sono tornati in patria vengono identificati la ragione del loro ritorno non è chiara. Ed infine, per quelli individuati ed arrestati, le difficoltà di assicurare condanne significative per crimini di terrorismo commessi in zone di conflitto ad una considerevole distanza dal paese che deve emettere la condanna.

Molti sostengono che le operazioni militari in corso in Medio Oriente, avendo come obiettivo anche il contingente dei foreign fighters unitamente al continuo utilizzo di questo tipo di militanti come attentatori suicida, riduca la misura del problema del potenziale ritorno dei foreign fighters. Sebbene tale affermazione potrebbe essere condivisibile nel lungo termine, ci sono dei limiti pratici all’affidarsi esclusivamente alla risposta militare, non ultimo l’ampiaportata del problema. Sorgono costantemente questioni sul rispetto dei diritti umani, avendo, molti paesi, come obiettivo proprio i loro stessi cittadini, per non parlare del rispetto del diritto internazionale che limita l’estensione dell’opzione militare.Quindi malgrado i progressicompiuti da un punto di vista militare in Iraq e in Siria, una significativa emigrazione dei foreign fighters da quei paesi verso l’occidente resta molto probabile.

Stime indicano che il 30% dei foreign fighters sono tornati a casa o si sono trasferiti in uno Stato terzo. Il coinvolgimento di foreign fighters negli attacchi di Jakarta, Parigi, Bruxelles, Istanbul, che sia nella cospirazione, nel reclutamento, nella facilitazione o nel compiere gli attentati, ci mostra l’abilità delle organizzazioni estremiste come IS, di mobilitare i foreign fighters che tornano e coinvolgere terroristi locali.

La combinazione dell’utilizzo di tattiche a bassa tecnologia e soft target (luoghi ad alta concentrazione di civili, supermercati, musei, ospedali, scuole, hotel, centri culturali, caffè, ristoranti, stazioni di autobus e ferroviarie) rendono molto difficile proteggere adeguatamente spazi pubblici e prevenire questo tipo di attacchi.

Il nesso tra foreign fighters e criminalità

A complicare il quadro c’è la circostanza per cui alcuni di loro (ad esempio nel caso degli attacchi di Bruxelles e Parigi)hannoun collegamento con la criminalità, soprattutto per reati minori. Il Belgio ha rivelato che metà dei suoi foreign fighters ha avuto una storia criminale prima di andare in Siria e Iraq. In Germania 2/3 dei foreign fighters erano noti alla polizia, ed 1/3 ha una storia criminale. Il 52% dei foreign fighters francesi ha precedenti di criminalità. Il nesso con il crimine ha anche un impatto sul finanziamento delle attività terroristiche. Il finanziamento del terrorismo internazionale sta diventando sempre più variegato: è sempre più comune la raccolta di denaro attraverso traffici illeciti di piccola scala in armi, sigarette o beni contraffatti. Diversi attacchi in Europa sono stati finanziati attraverso traffici illeciti, ma anche attraverso crimini minori, come le rapine. I crimini minori sono anche stati utilizzati dai foreign fighters europei per finanziare i loro viaggi. Inoltre, vista la pressione finanziaria esercitata sull’IS è probabile che nell’immediato futuro il finanziamento avvenga anche attraverso commerci illeciti.

Se la minaccia dei foreign fighters che tornano è percepita come essere la più pericolosa, vale la pena di considerare brevemente che questo tipo di individui pongono una minaccia altresì alta anche prima della partenza e quando sono in zone di conflitto.

La minaccia prima della partenza

I potenziali foreign fighters possono esercitare un’allarmante influenza su altri agendo come “radicalizzatori” e cioè possono attirare individui e persuaderli a diventare radicali violenti. Nella peggiore delle ipotesi un aspirante foreign fighter quando si trova nell’impossibilità di partirepuò dirottare la sua attenzione sul proprio paese ed elaborare un piano per un attacco terroristico.

La minaccia durante il viaggio

Il momento in cui questi individui si trovano in Siria piuttosto che in Iraq o in Libia è critico. Coloro che combattono per l’IS hanno incoraggiato altri a compiere attentati in Occidente. Come il caso di un estremista tedesco dell’IS che esortava i suoi fratelli a seguirlo “prima che fosse troppo tardi”e a sostenere la causa dell’IS in Germania, attaccando gli infedeli. L’ampio e crescente utilizzo dei social media da parte di organizzazioni estremiste violente ci racconta proprio la storia di questo tipo di influenza: l’eroismo, la difesa dell’Islam da parte di coloro che combattono nelle zone di conflitto diventa un modello, un esempio da emulare per coloro che sono a moltissima distanza dalla guerra.

Sfidare la minaccia

Un individuo che si radicalizza attorno ad una particolare ideologia violenta (IS o Al Qaeda) e si unisce al gruppo, combatte, uccide e forse tortura il nemico percepito, rappresenta un problema peculiare. Coloro che combattono in un gruppo come l’IS hanno sviluppato un disprezzo per la loro terra natia, attraverso il processo di radicalizzazione, e portano questo odio con loro quando lasciano il proprio paese per unirsi all’IS. Questo odio viene ulteriormente nutrito e intensificato nelle zone di conflitto e per una vasta percentuale questo odio è a vita. Questi individui vedono il proprio paese come nemico dell’Islam, che è in “guerra contro l’Islam”.

Questo aspetto è cruciale ed è per questo motivo che il fenomeno dei foreign fighters è così preoccupante per i governi occidentali.

Se con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2178(2014) si richiede agli Stati di adottare misure penali appropriate alla serietà del crimine, gli Stati, dal canto loro, si trovano a dover fronteggiare non pochi problemi riguardo alle prove ammissibili. Questo significa che è necessario sì raccogliere le prove, ma soprattutto convertire le informazioni di intelligence in prove ammissibili e la necessità di reciproca assistenza legale tra gli Stati stessi.

Pochissimi Stati hanno sviluppato strategie comprensive di contrasto a questo fenomeno, i governi si sono spesso focalizzati sulla reazione: realizzazione di misure di sicurezza,elaborazione di testi legislativi, quando invece appare necessario che si affrontino le condizioni sottostanti e conduttive alla diffusione dell’estremismo violento. Vi capiterà di imbattervi almeno una volta in quelli che dicono: “lasciateli andare probabilmente verranno uccisi comunque e si risolverà il problema per noi!”. Questa attitudine è errata perché: potrebbero non essere uccisi e ritornare capaci di condurre un attacco a casa; potrebbero condurre un attacco e uccidere civili; potrebbero condurre un attacco in un paese alleato; potrebbero ritornare come “eroi” e contribuire alla radicalizzazione di una nuova generazione. Perciò è necessario un approccio comprensivo, personalizzato e multidisciplinare dove la priorità dovrebbe essere quella di coinvolgere le comunità a livello locale nella prevenzione, dedicare risorse ai programmi di de-radicalizzazione che bisognerebbe progettare e realizzare.