di Annarita D’Agostino

Divari economici, sociali, territoriali, generazionali: è un ‘Paese delle disuguaglianze e dei dualismi’ quello mappato dall’Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese presentato oggi alla Camera dei Deputati. Ad aumentare, non solo le distanze ma anche la loro complessità: “la diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi”: “la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse”.
Da un lato, la classe operaia “ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale” mentre il ceto medio “non è più alla guida del cambiamento e dell’’evoluzione sociale”. La conseguenza è una “perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi”.

Il “degiovanimento” dell’Italia
Le classiche divisioni socio-economiche sono ormai scomparse per lasciare il posto a nuove realtà: “giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori” e “una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta anche al progressivo invecchiamento della popolazione”.
Con il 22% di popolazione over 65, l’Italia è il Paese più vecchio dell’Europa e “tra quelli a più elevato invecchiamento al mondo”. Nel 2016 si è registrato un nuovo minimo delle nascite (474mila), il numero medio di figli per donna si è attestato a 1,34 e il saldo tra nati e morti ha segnato il secondo maggior calo di sempre (-134mila) dopo quello del 2015. L’Italia è, secondo l’Istat, vittima di un fenomeno di ‘degiovanimento’: la popolazione residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di circa 1,1 milioni, anche se “il contributo positivo dei cittadini stranieri” ha attenuato questa dinamica.
Senza opportunità, i giovani non riescono a raggiungere l’indipendenza economica e sociale e a formare una propria famiglia: quasi sette under 35 su dieci sono costretti a vivere ancora in quella di origine. L’Italia resta inoltre maglia nera nell’Ue per i Neet, giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano (24,3% contro la media europea del 14,2%).

Confermati disoccupazione, dualismo territoriale e difficoltà per le donne
Sul versante occupazionale, nel 2016 disoccupati e scoraggiati sono poco meno di 6,4 milioni, e si contano circa 3 milioni 590mila famiglie senza redditi da lavoro e da pensione, pari al 13,9% del totale. La percentuale più alta si rileva nel Mezzogiorno (22,2%) che si conferma l’area più svantaggiata del Paese. Le donne occupate affrontano carichi mediamente più gravosi degli uomini, lavorando 57 ore a settimana contro le 51 degli uomini.

Le nuove ‘famiglie’, sempre più povere
La nuova mappa socio-economica del Paese vede dunque prevalere due classi: le ‘famiglie di impiegati’, appartenenti alla fascia benestante (4,6 milioni di nuclei per un totale di 12,2 milioni di persone) e le ‘famiglie degli operai in pensione’, fascia a reddito medio (5,8 milioni per un totale di oltre 10,5 milioni di persone). Ad esse si aggiungono nuovi ceti: ‘famiglie a basso reddito con stranieri’, ‘famiglie a basso reddito di soli italiani’, ‘famiglie tradizionali della provincia’, ‘anziane sole’ e ‘giovani disoccupati’, ‘giovani blue-collar’ (molte coppie senza figli) e, fra le più ricche, ‘pensioni d’argento’ e ‘classe dirigente’. Nuove divisioni frutto del fatto che “la classe operaia ha perso il suo connotato univoco” e “la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali”.
Con una “capacità redistributiva dell’intervento pubblico” che “è tra le più basse in Europa”, aumentano le distanze fra ricchi e poveri: la spesa per consumi delle famiglie ricche della ‘classe dirigente’ è più che doppia rispetto a quella dei nuclei all’ultimo gradino, ‘le famiglie a basso reddito con stranieri’.
In questo contesto sale all’11,9% l’indicatore di grave deprivazione materiale, particolarmente elevato per le famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro, con un’occupazione part-time o un genitore solo con figli minori a carico. La crisi comporta il taglio delle spese più comuni e più necessarie, come quelle mediche: la quota di persone che hanno rinunciato a una visita specialistica negli ultimi 12 mesi, perché troppo costosa, è cresciuta tra il 2008 e il 2015 da 4 a 6,5% della popolazione, con picchi di criticità nel Mezzogiorno e fra le famiglie di anziane sole e giovani disoccupati.
L’emarginazione sociale si ripercuote anche sulla partecipazione alla vita collettiva: solo l’8,1% della popolazione dai 14 anni in su, meno di uno su dieci, è impegnato direttamente in politica con qualche forma di militanza e solo lo 0,8% degli italiani presta un contributo di lavoro gratuito alle formazioni politiche; l’1,5% presta invece un sostegno finanziario.

Una performance “modesta” che richiede l’intervento pubblico
Il quadro delineato dall’Istat è il risultato di una “modesta performance” di crescita per l’Italia: “La ripresa, a causa dell’intensità  insufficiente della crescita economica, stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione”. Secondo il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, “l’intervento pubblico ha molte possibilità di rimuovere gli impedimenti alla parità delle opportunità, a partire dall’istruzione e dalla formazione del capitale umano”. Investire sulle persone e sull’innovazione è “una strada obbligata”, così come “molto possono anche le politiche attive del lavoro”.