di Giovanni Magliaro – Responsabile Ufficio Legale Ugl

Estratto dal documento politico approvato dal Congresso Confederale del 2006

L’Italia sta attraversando una profonda crisi economica e produttiva ed una perdita di competitività le cui dimensioni fanno ritenere trattarsi di un problema di natura strutturale.
Le spiegazioni di questo preoccupante fenomeno sono molteplici e complesse. Va detto subito che oggi stiamo scontando le conseguenze di scelte di politica economica e industriale che risalgono agli anni ottanta e novanta, caratterizzati da un intreccio perverso tra politica, affari e finanza. E’ infatti databile in quel periodo lo smantellamento di quella grande industria, privata e pubblica, che ci aveva portato ad essere la quinta potenza mondiale.
Nella classifiche internazionali sulle prime 500 società nel mondo ne troviamo usualmente due o tre italiane, spesso di natura pubblica, e nemmeno ai primi posti. Non c’è nessuna azienda che rappresenti la chimica, eppure negli anni sessanta eravamo ai primi posti nel mondo. A metà degli anni ottanta la Olivetti si contendeva il primato nella produzione dei PC : ora è scomparsa e tra i computer che usiamo nessuno è italiano. Non figura nemmeno un’azienda farmaceutica, nessuna nell’elettronica di consumo, nessuna nell’aeronautica civile, settori dove eravamo competitivi ai massimi livelli. In Italia sono in funzione oltre cinquanta milioni di telefoni cellulari ma i produttori non sono italiani. Abbiamo nelle nostre case e nelle nostre auto decine di milioni di televisori, radio portatili, lettori di CD, di DVD, registratori video e suono, impianti di alta fedeltà, autoradio. Tra le marche che leggiamo quelle italiane sono pressoché inesistenti.
Insomma in quel ventennio si è distrutto il sistema delle grandi imprese in settori vitali, come l’informatica, la chimica, la farmaceutica, l’elettronica, l’aerospaziale, l’high tech. E’ sopravvissuta solo l’auto, anzi solo la Fiat, che peraltro sta ancora cercando di uscire da una pesante crisi.
A ciò è da aggiungere che si è anche persa l’occasione di utilizzare i processi di liberalizzazioni e privatizzazioni degli anni ’90 allo scopo di costituire un nucleo di grandi imprese private. Con tali operazioni si è in sostanza distribuita una posizione di rendita a favore di alcune grandi imprese (trasporti e comunicazioni) oppure a favore di imprese rimaste in ambito pubblico (servizi di pubblica utilità).
Dopo questa fase di smantellamento è rimasto un tessuto produttivo costituito soprattutto da piccole aziende insieme a pochissime grandi e medie. E anche quelle grandi, come le multinazionali, in Italia hanno la metà di fatturato e di occupati di quelle francesi e un quarto di quelle tedesche. Da noi ci sono quattro milioni di aziende con una media di dipendenti inferiore a cinque. Negli anni scorsi questo fu definito come una specie di secondo miracolo economico italiano e dove si teorizzò la tesi del “piccolo è bello”. Era il fenomeno dei distretti industriali, in primo luogo nel Nord-Est, dove la creatività italiana e l’abilità quasi artigianale degli operatori sono riuscite a creare un boom di produzioni e di esportazioni, ad avere in certe nicchie produttive una sorta di monopolio mondiale.
Questo periodo però era anche quello delle svalutazioni della lira che agevolavano le esportazioni di prodotti a un prezzo di mercato più basso. Con l’entrata in vigore dell’euro e con la fine delle svalutazioni monetarie pilotate questa situazione di privilegio è finita. Come sono finiti a causa dei vincoli europei i sussidi di varia natura che lo Stato elargiva alle imprese. Subito dopo vi è stata l’esplosione della Cina che ha invaso il mondo con prodotti a basso costo e che ha reso difficile e spesso impossibile una politica competitiva basata solo sui prezzi.
Proprio la costituzione dell’unione monetaria europea unita al radicale processo di innovazione che ha caratterizzato dagli anni ottanta l’economia degli Stati Uniti ha determinato un profondo cambiamento dell’ambiente economico e dell’andamento dei mercati internazionali ai quali il nostro sistema produttivo non ha saputo reagire adeguatamente.
Sembra chiaro che in particolare dal nanismo delle imprese italiane, cioè dall’assenza di un numero apprezzabile di grandi imprese che operino in settori tecnologicamente avanzati, bisogna partire per spiegare l’attuale fase di crisi. Il modello basato sulle piccole e medie imprese funzionava in passato quando i mercati erano vicini e quando la nostra specializzazione produttiva era in sostanza complementare con i nostri partners del mercato europeo. Ora queste condizioni sono venute meno. A ciò è da aggiungere che le imprese italiane perdono quote di mercato anche perché operano in settori maturi e sono forti su mercati europei (vedi Germania) che in questi ultimi anni hanno avuto una domanda stagnante.
E’ ormai evidente che la competitività deve avvenire con i Paesi sviluppati (Stati Uniti, Europa e Giappone) e non con quelli in fase di sviluppo (Cina, India, altri Paesi asiatici). Deve infatti basarsi non sui prezzi ma sulla qualità e la tecnologia dei prodotti. Sarebbe certamente perdente una battaglia commerciale a colpi di prezzi bassi e con prodotti di largo consumo tradizionali nei confronti di Paesi dove il reddito medio pro capite è venti-trenta volte inferiore al nostro, dove tutto il contesto (dagli oneri sociali, alle condizioni di lavoro, alle tutele ambientali) è a enormi distanze da noi. Ma la competizione sulla qualità e sulla tecnologia è molto difficile se il nostro sistema produttivo si basa solo sulle piccole aziende. Infatti la qualità dei prodotti richiede grandi investimenti per la innovazione tecnologica, in ricerca e sviluppo, che non sono alla loro portata. La tecnologia dell’informazione e della comunicazione per sua natura si presta ad essere utilizzata in termini di accresciuta efficienza e di incremento di produttività quanto più grande e complessa è l’organizzazione che la adotta e che è capace di conformarsi ad essa.
La strada principale per uscire da questa situazione di stallo e per recuperare le posizioni nel confronto globale che potenzialmente sono alla nostra portata è quella di far crescere le nostre imprese, facendo diventare medie quelle piccole e grandi quelle medie. Laddove questa crescita dimensionale si rivela impraticabile è necessario trovare nuove forme di aggregazione, di collaborazione e di integrazione.Per consentire di puntare, attraverso una struttura adeguata, su prodotti innovativi ad alto contenuto tecnologico e di qualità in grado di competere validamente. L’esempio dei distretti industriali, che ha dato risultati positivi, è senza dubbio da potenziare e sviluppare.
E’ certo una strada lunga e non facile dove bisogna partire dai punti di forza di cui l’economia italiana ancora dispone e per riuscire nello scopo ognuno deve fare la sua parte, in particolare il sistema delle imprese e il governo.
Gli imprenditori devono ritrovare il gusto di intraprendere e di investire in attività produttive e non nella pura speculazione finanziaria gli ingenti profitti ricavati e ritrovare quella propensione al rischio che caratterizza i mercati più dinamici e più attivi. Le classifiche dicono che i nostri maggiori gruppi industriali operano in settori che producono rendite perché non sono stati sufficientemente liberalizzati e sono di fatto al riparo della concorrenza. Ora, tra l’altro, è venuto meno anche l’alibi del mercato del lavoro “ingessato” da regole troppo rigide : oggi il nostro è uno dei mercati del lavoro più flessibili del mondo industrializzato e dove vigono retribuzioni largamente al di sotto della media europea e americana. Per puntare sulla novità e sulla qualità dei prodotti gli imprenditori dovranno tornare a investire nella ricerca privata in misura almeno pari a quella dei nostri partners europei e mondiali.
Il governo deve anzitutto svolgere il ruolo primario di indirizzo strategico e di fissazione degli obiettivi centrali dello sviluppo. Le scelte che possono utilizzare condizioni favorevoli ovviando alle note criticità richiedono politiche di lungo termine e capacità di analisi e di previsioni da parte del governo escludendo l’utopistico ricorso allo spontaneismo del mercato. Compito del governo è poi quello di creare le condizioni dello sviluppo e garantire risorse per una adeguata politica energetica e infrastrutturale idonea a mettere le imprese italiane alla pari con i concorrenti europei ed extraeuropei; per rendere operativa una pubblica amministrazione efficiente e meno burocratizzata, in grado di agevolare nuove attività economiche e la vitalità di quelle esistenti; per affrontare seriamente il problema cruciale dell’istruzione e della formazione, attualmente non adeguate agli standard richiesti da un mercato tecnologicamente avanzato. E soprattutto per potenziare la ricerca di base ancora troppo inferiore ai livelli degli altri Paesi industrializzati.