di Nazzareno Mollicone
L’allungamento dell’età pensionabile a 67 anni, disposto dalla professoressa Fornero nell’ambito della “manovra” finanziaria di austerità del Governo Monti, ha creato – com’è noto – gravi problemi a migliaia di lavoratori che erano prossimi alla preesistente età pensionabile. Si trattava in particolare di coloro che avevano fatto accordi collettivi od individuali per dare le dimissioni in situazioni di crisi aziendali certi dell’allora vicina erogazione della pensione, e che quindi sono rimasti senza stipendio e senza pensione: nel linguaggio corrente, sono stati chiamati “esodati”. I governi successivi sono stati costretti – sotto le pressioni sindacali e politiche – ad emanare ben otto decreti di deroga alle norme “Fornero” riguardanti in totale circa 150.000 lavoratori per far loro erogare ugualmente la pensione.
Ma i danni provocati da quella riforma pensionistica non erano finiti. Vi sono infatti molte aziende che avrebbero necessità di effettuare alcune riduzioni di personale le quali in genere riguardano quasi sempre lavoratori vicini all’età pensionistica; vi sono poi altri lavoratori che, per i problemi causati dall’età avanzata (specie per chi svolge certi lavori usuranti) o per aver accumulato decine di anni di contribuzioni utili a pensione vorrebbero andare in pensione prima dei fatidici 67 anni (che peraltro aumenteranno in relazione ai parametri attuariali della “vita media”).
Così con la legge finanziaria dello scorso anno è stata istituita una possibilità di anticipo della pensione, definita “APE” (ossia, anticipo pensione) la quale però ha delle caratteristiche particolari: il pensionando – sulla base di certi requisiti certificati dall’INPS – chiede in prestito ad una banca convenzionata la pensione che avrebbe dovuto percepire, per un massimo di tre anni e mezzo. Il prestito verrà poi ripagato, compreso il tasso d’interesse stabilito d’intesa con il Governo ed una copertura assicurativa, detraendolo dalla pensione che percepirà regolarmente all’età stabilita dalla legge fino ad un massimo di venti anni (se sopraviverà…), altrimenti interviene l’assicurazione).
Già da questo fatto si vede che in realtà il lavoratore si paga da solo il prepensionamento, ed il governo interviene solo come intermediario con banche ed assicurazioni per contenere i costi.
Vi è poi la cosiddetta “Ape sociale”, riservata ai disoccupati privi di ammortizzatori sociali che abbiano 63 anni di età, 30 di contribuzione e meno di quattro anni all’età pensionabile di legge: lo Stato in questo caso eroga lui, senza prestito, una specie di sussidio di accompagnamento alla pensione entro un tetto massimo di 1.500 euro, legato all’importo della pensione regolare che poi riscuoterà. Ovviamente ciò ha un costo finanziato dall’Inps e dalla finanza pubblica.
Queste possibilità di pensione anticipata dovrebbero entrare in vigore dal 1° maggio: ma a quattro mesi di distanza dall’emanazione delle norme, il ministero del lavoro non ha ancora emanato i decreti di attuazione che sono all’esame delle varie istituzioni pubbliche (Ragioneria, Consiglio di Stato, Corte dei Conti) per la loro correttezza amministrativa.
Il ministro del lavoro Poletti ha dichiarato il 4 maggio che il primo decreto, quello sull’APE sociale arriverà “tra qualche giorno”. Ma questa ulteriore attesa sta creando un grande disagio a lavoratori interessati che, lo ricordiamo, sono già disoccupati da tempo.
Ma anche per l’altra “APE”, quella volontaria, si attendono i decreti attuativi per renderla operativa. In particolare, il ministero dovrà formalizzare l’accordo con le banche e le assicurazioni sul tasso d’interesse da applicare e sul premio assicurativo necessario per coprire l’ipotesi di morte del pensionato prima della completa restituzione del prestito. Si parla di un tasso bancario del 2,75% e di un premio assicurativo che sarebbe, secondo indiscrezioni, addirittura del 30% del capitale “prestato”!
Da tutto ciò risulta evidente come questa norma relativa al pensionamento anticipato, che peraltro – nella maggior parte dei casi – sarebbe a totale carico del lavoratore che lo richieda, è tuttora una promessa non mantenuta. Ed è veramente singolare come, fatta a dicembre una legge che prevede l’entrata a regime dopo quattro mesi, i ministeri competenti non siano stati in grado di raggiungere subito gli accordi con i sindacati, l’Inps, le banche e le assicurazioni al fine di varare in tempo i decreti attuativi, ben conoscendo i tempi lunghi dei “concerti” e dei pareri burocratici-amministrativi!