di Claudia Tarantino

Il ministro Lorenzin ha annunciato per la prossima settimana una convocazione delle Regioni per affrontare una delle questioni più spinose – rimasta senza soluzione – del Patto per la Salute siglato nel 2014: la revisione del sistema dei ticket sanitari.
In una intervista, il ministro della Salute ha sottolineato che “i ticket incidono per 3 miliardi di euro sui 113 del Fondo Sanitario Nazionale e potrebbero quindi essere eliminati portando avanti il processo di spending review”.
Se da un lato, però, l’abolizione della compartecipazione alla spesa sanitaria da parte dei cittadini è un’ipotesi sostenuta ed auspicata da più fronti, da quello sindacale a quello delle associazioni per i diritti dei malati, ciò che non convince pienamente è la strada attraverso cui si vorrebbe ottenere questo risultato. In ambito sanitario, infatti, il taglio della spesa non è solo l’equivalente di una riduzione degli sprechi e delle inefficienze, ma si è spesso palesato attraverso tagli di posti letto, carenza di personale, liste di attesa diventate infinite. Per questo motivo, sembra quasi paradossale pensare di aiutare i cittadini abolendo una tassa ma, al tempo, stesso facendo venir meno tutta una serie di prestazioni e servizi che, seppur tra mille difficoltà, finora sono stati comunque garantiti.
Tra le ipotesi sul tavolo c’è una trasformazione del ticket in una forma più proporzionale al reddito e tra gli obiettivi c’è anche il superamento delle forti differenze regionali nelle cifre pagate dai cittadini.
Secondo l’Agenas, infatti, nel periodo tra il 2012 e il 2015, gli italiani hanno pagato più di diecimila euro per la compartecipazione alla spesa sulle prestazioni specialistiche, pronto soccorso e altri ticket vari (farmaci esclusi) e per le prestazioni in intramoenia. Un vero salasso.
In particolare, per il ticket sulla specialistica ambulatoriale, la spesa nel periodo analizzato è stata di 5,447 miliardi, sul pronto soccorso di 155,6 milioni, su altre prestazioni sanitarie di vario genere (farmaci sempre esclusi) di ulteriori 283,7 milioni, cui si aggiungono infine i 4,6 miliardi pagati dai cittadini per le prestazioni sanitarie in regime di intramoenia. In totale, circa 10,5 miliardi di euro in quattro anni. Un conto salato, che vede in testa alla classifica la Valle d’Aosta: per queste voci di spesa out of pocket i suoi cittadini hanno infatti pagato in media 279 euro circa ciascuno nei quattro anni considerati, ovvero oltre 69 euro l’anno. In fondo alla classifica c’è la Sicilia con un totale medio di circa 70 euro, 17 per anno. La media nazionale è nei quattro anni di 174 euro procapite circa, 45 euro l’anno.
Un altro spunto di riflessione viene dall’andamento in calo, registrato dall’Agenas, di tutte le voci di spesa considerate, confermate dalla stessa Lorenzin, che solo qualche giorno fa aveva parlato di un “9% in meno tra il 2012 e il 2015” ascrivendone la spiegazione ad un “aumento dell’efficienza e ad una riduzione dell’inappropriatezza”. Comparando i dati, sembra piuttosto che le persone abbiano rinunciato alle cure, principalmente per due motivi: o non possono permettersi di pagare nemmeno il ticket o, visto l’allungarsi delle liste di attesa che rendono quasi inaccessibili, in tempi adeguati, le strutture pubbliche, hanno deciso di rivolgersi direttamente al privato che, in molti casi, fa prezzi addirittura più competitivi del pubblico. Basti ricordare, infatti, che sulle ricette c’è anche il cosiddetto ‘superticket’ di 10 euro che, da provvedimento provvisorio del 2011, è diventato strumento definitivo per fare cassa ed ha contribuito ad allontanare i cittadini dal Servizio Sanitario Nazionale.